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Gli Hunger Games della revisione

Ho da poco consegnato un libro che ho amato fin dal primo momento. E l’ho amato per tante ragioni. Una su tutte: mi consentiva – anzi, mi chiedeva – di divertirmi con la lingua. E io potevo mai rifiutarmi?

Ho buttato giù un elenco – non esaustivo – di alcune delle parole e delle espressioni che non avrei mai pensato di poter usare in una traduzione. E invece.

Alcune, ne sono consapevole, verranno cassate in fase di revisione – e io stessa, in certi casi, ho proposto delle alternative un po’ più soft. Ma altre, presumo, approderanno sulla carta, alla fine degli Hunger games.

MAPPAZZONE: In un libro fatto per il 60% di cibo, potevo mai esimermi dall’omaggiare chef Barbieri? Spoiler: no.

ARANCINA COI PIEDI: Sull’annosa questione arancina vs. arancino, ho già detto la mia. Purtroppo questa espressione meravigliosa si usa solo dalle mie parti, quindi l’ho scritta esclusivamente per togliermi lo sfizio, ma con ogni probabilità diventerà pagnotta.

NUTRICARE: Se rimanesse, scommetto che molti penserebbero: toh, un refuso. Invece a me serviva un verbo che significasse nutrire ma anche allevare, accudire. Ora, non mi sono dovuta inventare niente perché quel verbo esiste ed è proprio nutricare, quindi ci ho provato. E sono pronta a difenderlo con le unghie e con i denti, se necessario – no, non è vero. se dovessero cassarmelo e propormi una soluzione convincente, non difenderei un bel niente, perché il modo migliore per massacrare i libri e fare uscire le ciofeche è fare a gara a chi ce l’ha più grosso, l’ego ovviamente.

ASCOLTA UN CRETINO: Siccome in questo libro si parla, oltre che di cibo, di tv e cinema e attorucoli e meteore, ma anche di impresari non sempre limpidi, potevo non omaggiare Micio, pur sapendo che mai e poi mai i giovani coglieranno il riferimento?

L’HO INVENTATO IO: Io, che soffro della sindrome di Pippo Baudo – però basso profilo, non dico mai che l’ho inventato semmai che l’ho scoperto io – potevo non omaggiarlo, tanto più l’originale dice letteralmente è una mia creatura e che a dirlo è un agente, riferendosi a un attore in ascesa che ha lanciato lui?

IL GATTO E LA VOLPE: Onestamente, se si parla di due impresari senza scrupoli, come si fa a trattenersi? Cioè, io mentre leggevo quel passaggio, mi canticchiavo in testa Bennato.

MAGRE MAGRE IN MODO ASSURDO: Il riferimento a Zoolander in originale mi è sembrato palese, e io non potevo perdermelo per strada. Mi sarei mangiata le mani per il resto dei miei giorni.

LIVELLA UN PAIO DI PALLE: Nell’originale si parla di death privilege, del fatto che nemmeno davanti alla morte siamo tutti uguali. E se ne parla in un numero di stand-up comedy. A me è venuta subito in mente la livella di Totò, e anche se escludo che Totò sia un riferimento culturale valido per gli americani, ci ho provato. Probabilmente non passerà. Anche perché comunque è un’aggiunta, una precisazione, una chiosa – di cui, oggettivamente, si può fare a meno.

IL CULO CHE NON FACEVA PROVINCIA MA PIANETA: Questo è uno di quei casi in cui mi sono permessa di calcare la mano, di caricare un po’. Perché di fronte a un culo grosso come un pianeta, onestamente, la tentazione di aggiungere altro colore è stata forte. Poi ehi, andrebbe benone anche l’alternativa più scialla, quella del culo grosso come un pianeta. Ma chi non risica non rosica.

SMARGINARSI: L’originale (lose the edges) non usa esattamente l’espressione di Elena Ferrante (tradotta in inglese con dissolving of margins), ma l’esperienza che descrive è proprio quella. Anche in questo caso, il riferimento è un po’ estremo, forse, infatti io stessa ho suggerito l’alternativa scontornarsi.

Che gli Hunger Games (della revisione) abbiano inizio.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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I ragazzi addormentati – NdT

Non è elegante sputare nel piatto dove si mangia, certo. E nessuna persona sana di mente si permetterebbe mai di sparare a zero – non pubblicamente, almeno – su un libro che ha tradotto. La verità, però, è che è capitato a tutti – a chi più e a chi meno – di tradurre libri che, se non dovessimo portare a casa la pagnotta, avremmo lanciato dalla finestra dopo nemmeno venti pagine. Ecco, non è questo il caso dei Ragazzi addormentati.

Devo aprire una parentesi. Ogni anno, verso la fine dell’estate, spulcio i cataloghi degli editori francesi per sapere cosa uscirà per la rentrée. Certo, col passare del tempo, ho perso un po’ di entusiasmo, lo ammetto. Ma continuo a spulciare. E l’estate scorsa, tra i millemila titoli in uscita, uno aveva catturato la mia attenzione: il romanzo d’esordio di tale Anthony Passeron, intitolato Les enfants endormis. L’ho letto, mi è piaciuto, e ho pensato che avrei tanto voluto tradurlo.

Poi, con la complicità dell’universo – che ogni tanto una gioia la regala a tutti, a chi più e a chi meno – l’ho tradotto.

La cosa magari non incredibile ma sicuramente insolita è che oltre ad essermi piaciuto quando l’ho letto la prima volta, ha continuato a piacermi mentre lo traducevo, mentre lo rivedevo, e perfino quando mi sono arrivate le bozze finali. E ve lo giuro, non capita spesso, perché il più delle volte si arriva saturi, completamente saturi, alla fine del processo.

Tra l’altro, era (ed è) un libro lontano dalle mie corde, non tanto dalle mie corde di lettrice quanto da quelle di traduttrice, perché è tutto in levare. Eppure è stato interessante e stimolante, per me, cimentarmi con una lingua misurata, distaccata, a tratti dimessa e perfino asettica – una lingua funzionale al libro, perché trattandosi di una vicenda straziante, se anche lo stile fosse stato carico di pathos, il romanzo sarebbe probabilmente risultato squilibrato.

Invece l’equilibrio è perfetto. Così com’è perfetto il ritmo impresso dall’alternarsi di due filoni narrativi: da una parte il calvario familiare, dall’altra la ricostruzione della ricerca medico-scientifica sull’Aids, con la storia privata di una famiglia come tante che si intreccia inestricabilmente con una storia ben più grande e collettiva.

Anthony Passeron

I ragazzi addomentati

Guanda

240 pp.

leggi le prime pagine


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Libri facili e libri difficili

Ieri ho finito la prima stesura del libro più difficile che ho tradotto nella mia vita.

Quando sono arrivata alla pagina dei ringraziamenti – che, per inciso, è la pagina più bella di tutte, perché è in quel momento che vedi la luce – ho pensato: tutti i libri facili si assomigliano fra loro, ogni libro difficile è difficile a modo suo.

I libri facili li riconosci subito, o quasi. Sono libri carini, scritti benino, precisini e pulitini; insomma, sono libri pieni di -ini, librini. Sono libri che, di base, traduci con il pilota automatico o, che in altre parole, si traducono da soli. E potrà sorprendervi ma: a) questi libri sono piuttosto rari; b) sono una manna dal cielo per un traduttore – perché magari si annoia per un paio di mesi, ma porta a casa la pagnotta senza sbattersi più di tanto la testa al muro.

Il libro di cui ho finito ieri la prima stesura, però, non rientra in questa categoria; è un libro difficile, così difficile che mi ha costretta a ridefinire il mio concetto di libro difficile.

Dicevo che ogni libro difficile è difficile a modo suo, e lo ripeto, lo sottoscrivo.

Sono spesso difficili i libri brutti, quelli che io chiamo, senza troppi giri di parole, monnezza. E sono difficili perché sono scritti male e editati peggio. Perciò se vuoi ottenere una roba un minimo dignitosa, leggibile, ti tocca fare i salti mortali: non puoi tradurre e basta, sei costretto a fare un lavoraccio, a tratti sporco – e, ve lo giuro, è una fatica immane.

Poi si entra nella sfera soggettiva. Per qualcuno, per esempio, possono essere difficili i libri pieni di slang, o di giochi di parole, o di interminabili descrizioni, oppure quelli che infilano una citazione ogni tre righe, o che abbondano di termini tecnici, o (qui potete aggiungere quello che vi pare). Siamo nell’ambito del gusto e delle inclinazioni personali, ovviamente. Per questo, in fondo, ogni libro difficile è difficile a modo suo e quello che è difficile per Tizio, magari, è una passeggiata di salute per Caio e viceversa.

Ora, io sono una a cui piace vincere facile. Il mio mantra è da sempre: massimo risultato con il minimo sforzo. Perciò, di base, dei libri difficili farei volentieri a meno. Di base. In teoria. Ma sono anche una che ci mette poco ad annoiarsi, e se dovessi vivere una vita col pilota automatico impazzirei. Quindi, se ogni tanto mi tocca un libro difficile, sono anche contenta. Soprattutto se, oltre che difficile, il libro è anche bello. E il libro di cui ho finito ieri la prima stesura, oltre che difficile, è anche bello – bellissimo, se posso; e divertente – non ho mai riso tanto leggendo un libro, non mi sono mai divertita tanto mentre lavoravo.

Chissà, mi chiedevo qualche giorno fa, se questo libro si trascinerà appresso l’odore del sudore, delle lacrime e del sangue che ci ho versato mentre lo traducevo. Spero di no. Anzi, spero che chi lo leggerà possa pensare che si sia tradotto da solo. Significherebbe che ho fatto un buon lavoro.


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Una questione di affinità

Una cosa che ho sempre cercato di fare, fin dagli albori – perché mi piace e perché è utile, o per lo meno lo è per me – è leggere libri affini a quello che sto traducendo.

Qualcuno dirà: Ma non ti annoi? Be’, no. Anche perché, non prendiamoci in giro, finché non consegni, dal libro non esci, non hai scampo. Parlo per me: di certo non lavoro 24 ore al giorno, ma anche quando non lavoro, in un certo senso, cervello e inconscio lavorano per me – ogni tanto, anche nel sonno, ahimè. Nel corso della giornata, capita che quella parola, quell’espressione, quel riferimento culturale passino a farmi un saluto veloce, come a dire: Oh, ti ricordi che abbiamo un conto in sospeso? E perfino nei momenti in cui credo di essere totalmente altrove, mi accorgo di essere ancora dentro al libro – mentre sono in fila alla cassa del supermercato o mentre sto guardando una serie oppure mentre sto spettegolando al telefono con un’amica, di colpo arriva una suggestione che può sollevare un dubbio o risolvere un problema.

Appurato che, come dicevo, il libro che stai traducendo non ti lascia scampo, mi dico: Fatto trenta, faccio trentuno. Ed ecco perché cerco di leggere libri affini.

Cosa intendo per libri affini? Libri che condividono temi, stile, ambientazione o anche semplicemente quello che definirei mood – un mix di atmosfere, sguardo, intenzione.

Mi piace, dicevo. E lo trovo utile, aggiungevo. Perché è una cosa che mi aiuta non solo a rimanere immersa nel libro in maniera consapevole e a non perdere il focus, ma soprattutto mi confina all’interno di un mondo – o di una galassia – che ha una sua coerenza. E la coerenza, quando si traduce narrativa, è o dovrebbe essere un faro.

Ecco perché nei prossimi mesi vorrei leggere romanzi di giovani autrici ebreo-americane, romanzi ambientati nel sottobosco dell’industria del cinema hollywoodiano, ma anche – e soprattutto – romanzi che parlano di rapporto col corpo, col cibo, col sesso e anche di mummy issues. (A tale proposito, ogni suggerimento è bene accetto.)


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Nuovo libro, nuovo metodo

Nei giorni scorsi ho blandamente cominciato a tradurre il nuovo romanzo, quello che – se tutto va bene – mi traghetterà sana e salva alla primavera – blandamente perché i tempi sono comodi e perché se rigore è quando arbitro fischia, nuovo lavoro è quando traduttore firma contratto, e io non ho ancora firmato, ma è giusto una questione di dettagli e scaramanzia.

Comunque, pure se blandamente ho cominciato, e mi sono immediatamente resa conto che negli ultimi tempi la mia metodologia di lavoro si è del tutto sbriciolata. O meglio è diventata molto più duttile e cambia, di volta in volta, adattandosi al libro – e un po’ anche alle mie necessità del momento.

Ovviamente ho già il mio schemino pronto. So quante pagine al giorno/alla settimana/al mese devo fare per non bucare la consegna, pur tenendomi un margine di sicurezza nel caso in cui dovessi pescare la temibile carta imprevisti in questo infido gioco chiamato vita. E anche a questo giro, come faccio ormai da due o tre libri a questa parte, non comincerò a rileggere dopo aver finito la prima stesura, perché è una cosa che mi manda (mandava) al manicomio. Ma farò dei continui andirivieni: traduco qualche capitolo, torno indietro e rivedo e sistemo, poi traduco qualche altro capitolo e di nuovo indietro a rivedere e sistemare. Di modo da arrivare alla fine senza rischiare di trovarmi tra le mani un blob informe e spaventoso, ma un testo da rifinire e limare. Come dicevo, è un metodo che ho già testato e che ha funzionato assai bene. Quindi, a posto.

La vera novità è un’altra, e cioè che ho deciso di leggere il libro per intero – prima. Cosa che non faccio mai, come molti colleghi, perché di base non ne sento il bisogno. Di norma, mi limito a leggere le prime 30-40 pagine, per tentare di entrare in sintonia con la voce, capire quali sono i problemi e le difficoltà e iniziare a elaborare le strategie per risolverli. In teoria avrei dovuto procedere così anche questa volta ma – udite udite! – dopo quelle 30-40 pagine non ho pensato: Madò che gran due palle, basta! bensì: Uh, mi piace, voglio andare avanti! Grazie, universo.

Sono curiosa di scoprire se questo metodo mi faciliterà il lavoro in prima stesura – pur essendo ragionevolmente convinta che, come ogni volta, sarà un massacro e uno scempio. Tanto più che, andando avanti nella lettura, mi sono ripetutamente imbattuta nei problemi e nelle difficoltà che avevo già individuato nelle prime 30-40 pagine, senza ulteriori sorprese.


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Arancine e arancini

Nei giorni scorsi ho letto un libro che forse tradurrò o forse no (aspetto una risposta e i tempi dell’editoria sono spesso lenti, soprattutto per gente che, come me, non ha ricevuto il dono della pazienza nella culla) e a un certo punto ho pensato: Oh no, qua dovrò fare delle concessioni!

C’è un momento in cui, out of the blue, una tipa started making arancini.

Ora, presumo che tutti siate al corrente dell’annosa quanto futile – poi spiegherò perché è futile – diatriba arancini vs. arancine. In sintesi, a Palermo le chiamiamo arancine, mentre a Catania le chiamano arancini. E per ragioni inspiegabili, nel resto d’Italia ha preso piede la variante catanese, nel senso che ha vinto il maschile.

Anche l’Accademia della Crusca si è espressa sulla questione. Ma, come anticipavo, per me è una diatriba futile che non avrebbe nemmeno ragione di esistere, per il semplice fatto che l’arancina e l’arancino sono due cose diverse. Non solo per la forma – tonda l’arancina, a punta l’arancino – ma, cosa più importante, perché sono diversi gli ingredienti. Per dire, dentro l’arancina (femmina) ci troverete macinato e piselli; dentro l’arancino (maschio) ragù a pezzi e formaggio filante. Ma vabbè. Sono sottigliezze più campanilistiche che culinarie.

In ogni caso, resta il problema di cosa scrivere in traduzione: arancine o arancini? E dopo aver verificato, spulciando ricette online, che in UK non fanno né arancine né arancini ma delle robe che solo al pensiero mi si spappola il fegato, sono giunta alla conclusione che, pur se con la morte nel cuore, scriverei arancini, al maschile. Perché sebbene entrambe le varianti siano riportate dai dizionari, una è dominante, mentre l’altra tradisce le mie origini – oltre che le mie fisime, portandosi appresso un pesantissimo residuo biografico. E il traduttore, si sa, dev’essere invisibile, o per lo meno, deve provarci – l’invisibilità non esiste, è una leggenda metropolitana, ma è un discorso troppo lungo, e non è questa la sede né il momento di affrontarlo.


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Proposte di traduzione

Nonostante tutto, tradurre mi piace. Certo, un po’ dipende anche dai libri. Potendo scegliere, eviterei quelli dove i personaggi alzano quattrocento volte gli occhi al cielo. E forse è anche per questo che, quando posso, cerco di fare un po’ di scouting.

Cosa significa, in soldoni, fare scouting? Significa cercare dei buoni libri non ancora tradotti/pubblicati in italiano e segnalarli/proporli agli editori.

Ecco, fare scouting mi piace molto. Ma, lasciatemelo dire, è una faticaccia e, come se non bastasse, questa faticaccia spesso non sfocia in nulla di concreto.

Per intenderci, se firmo un contratto per tradurre una ciofeca di quattrocento pagine, passerò mesi a sbattermi la testa al muro, chiedendomi chi me lo ha fatto fare, ma alla fine arriverà un bonifico. Perché, diciamolo forte e chiaro, è lavoro, quindi, alla fine della fiera, quello che conta è che ci paghi le bollette e ci fai la spesa.

Se invece passo settimane a setacciare, leggere, scartare finché non trovo qualcosa di valido, e poi passo altre settimane a buttare giù una scheda, a tradurre delle pagine, a selezionare editori potenzialmente adatti, a mandare mail, non è detto che succeda qualcosa. In termini puramente numerici, infatti, è abbastanza raro che una proposta di traduzione vada a buon fine e si trasformi in un contratto.

In realtà bisognerebbe fare una distinzione tra lo scouting su commissione e le proposte di traduzione spontanee.

Nel primo caso, quello dello scouting su commissione, è l’editore che ti dice: Sto cercando qualcosa così e cosà, hai dei titoli da segnalarmi? Nel secondo caso, quello delle proposte di traduzioni spontanee, è tutto più complicato.

Di base, ci sono due strade. La prima è, per così dire, più dritta. Esempio: muoio dalla voglia di lavorare con editore X, quindi adesso mi metto a cercare qualcosa che potrebbe fare al caso suo – e poi incrocio le dita. La seconda, invece, è decisamente più tortuosa: Esempio: leggo un po’ di roba che mi ispira, e appena trovo qualcosa di bello, cerco di capire a chi proporlo.

Ora, sorvolando su tutti gli impicci che ci sono a monte, come dicevo, questa strada è un po’ tortuosa perché non è detto che, alla fine, si trovi qualcuno a cui proporre quel bel libro.

Ed è quello che spesso succede a me. Metto gli occhi su romanzi che mi sembrano interessanti, li leggo, se mi piacciono mi assicuro che i diritti di traduzione siano liberi, poi preparo una scheda, traduco un po’ di pagine e a quel punto, in certi casi, il nulla cosmico, nel senso che non mi viene in mente nemmeno un editore potenzialmente adatto, e mi parte di default l’ambarabà ciccì coccò questo libro a chi lo do?

Sul mio computer, ho una cartella che si chiama “scartati”. Lì ci sono dei libri bellissimi ai quali non sono riuscita, nonostante l’impegno e gli sforzi, a trovare un editore. Su alcuni, ci ho messo una croce sopra. Su altri, invece, ci spero ancora. Su uno in particolare: il romanzo più pazzesco che ho letto negli ultimi anni, del tutto inadatto al mercato italiano, che è anche piaciuto a qualche editor che però mi ha detto, senza troppi giri di parole, che è too much, venderebbe al massimo tre copie. E ci sta, ci mancherebbe.

E quindi? Il succo è che si è creato una specie di alone mistico attorno alle proposte di traduzione, negli anni. Come fossero un passe-partout che apre tutte le porte. E certo, ci si fa notare di più proponendo un bel libro che mandando un cv. Ma, come spesso accade, la realtà è un po’ più complessa di come ce la raccontano.


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Una questione di adattamento

Ieri ho finito di tradurre un libro bellissimo, che ho inseguito con cocciutaggine e ho ottenuto in maniera un po’ rocambolesca.

Mentre ci lavoravo, non ho scritto niente, neppure un post. Probabilmente perché questo romanzo non mi ha costretta a farmi domande sui massimi sistemi traduttivi. Stavolta la vera difficoltà era restituire la semplicità di una lingua molto misurata, quasi dimessa, ma precisa, affilata, a tratti fredda ma che, al tempo stesso, colpisce e affonda. Una lingua che, quando ho letto il romanzo, molto prima di sapere che avrei voluto tradurlo e che lo avrei tradotto, mi aveva fatto pensare a Maylis de Kerangal.

Per me, che sguazzo in registri totalmente diversi, è stata una sfida interessante. Ho dovuto avvicinarmi a un grado quasi zero della scrittura, asciugare, lavorare di sottrazione.

Perché tradurre narrativa significa, prima di tutto, adattarsi, in maniera quasi camaleontica. Significa cogliere le voci e tentare di riprodurle, di restituirle – le voci, la voce, mi toccherà scrivere qualcosa prima o poi sull’argomento, che è il cuore di tutta la faccenda. Significa grattare, fino a trovare registri che nemmeno sapevamo di avere e che magari non avevamo, ma che pian piano, tentativo dopo tentativo, ci costruiamo e, fosse anche per lo spazio di un libro, facciamo nostri.


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A carte scoperte

Nei giorni scorsi, ho cominciato una nuova traduzione. Un bel romanzo d’esordio, francese, che ho inseguito fino ad accaparrarmelo. E mi è successa una cosa che ho sempre desiderato, ma che mai, nemmeno nei miei sogni più sfrenati, avrei pensato si sarebbe realizzata, ovvero: quando dalla casa editrice mi hanno chiamata per affidarmi il libro, abbiamo discusso nel dettaglio la mia prova, gettando così le basi per il lavoro a venire.

Pensateci, è una cosa sensata – oltre che molto utile. Ogni traduttore, così come ogni revisore, ha pregi, difetti, preferenze, idiosincrasie e perfino fisime. E giocare a carte scoperte fin dall’inizio, per come la vedo io, facilita il lavoro a tutti.

Aver vivisezionato, insieme alla persona che si occuperà della revisione, le prime dieci-quindici pagine del romanzo, mi permette di muovermi con una certa consapevolezza. Per esempio, di fronte a dei passaggi “problematici”, riesco già a intuire quali potrebbero essere le perplessità dall’altra parte, di fronte a certe mie scelte, perciò o correggo il tiro, o spiego a monte qual è stato il ragionamento che mi ha portata a scrivere una cosa piuttosto che un’altra.

Ripeto: io procedo più spedita e presumo che, allo stesso modo, procederà più spedito il revisore. E più si procede spediti, più il risultato finale sarà riuscito.

Come dicevo all’inizio, ho sempre desiderato di fare una cosa del genere, ma non mi era mai capitato prima. E non solo perché purtroppo i tempi dell’editoria sono frenetici, perché si lavora sempre sul filo del rasoio, in una perenne corsa contro il tempo – con tutto ciò che comporta in termini di qualità – ma anche e soprattutto perché raramente quando si assegna una traduzione si sa chi la rivedrà.

Ma chissà, forse un’altra editoria è possibile.


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Limare, limare e ancora limare

Tradurre è anche – soprattutto? – rileggersi e limare, limare e ancora limare, alla ricerca di un ritmo, di un flusso.

Per ottenere quel ritmo, quel flusso, certe volte bisogna scendere a compromessi e sacrificare qualcosa, ma la traduzione è un continuo esercizio di equilibrio, un perenne gioco di pesi e contrappesi.

Volevo fare qualche esempio concreto, confrontando la prima stesura e quella finale, dopo quel lavoro – lavorio? – di limatura di cui dicevo prima.

Prima stesura: Aveva il cuore malandato, gli affari non erano mai andati peggio, era sull’orlo di un esaurimento nervoso.

Stesura finale: Aveva il cuore malconcio, gli affari non erano mai andati peggio, era sull’orlo di un esaurimento nervoso.

Malandato mi piace molto di più di malmesso, ma sono costretta a cambiarlo per evitare la ripetizione con andati.

Prima stesura: A volte, quando non aveva voglia di leggere, si metteva alla finestra a guardare la neve. Nelle serate ventose, si precipitava giù dalle montagne avvolte dalle tenebre, volteggiava nel bagliore bianco-azzurro del diner e nel riflesso rosa dell’insegna al neon, per poi scomparire tra i boschi, nel buio, dall’altra parte della strada. 

Stesura finale: Di tanto in tanto, quando non aveva voglia di leggere, si metteva alla finestra a guardare la neve. Nelle serate ventose, si precipitava giù dalle montagne avvolte dalle tenebre, turbinava nel bagliore bianco-azzurro del diner e nel riflesso rosa dell’insegna al neon, per poi scomparire tra i boschi, nel buio, dall’altra parte della strada. 

Anche qui, per evitare delle assonanze che suonerebbero male e forse perfino malissimo, devo intervenire: decido quale delle tre parole problematiche voglio assolutamente mantenere/salvare (avvolte) e poi valuto le opzioni (posso trasformare a volte in di tanto in tanto e volteggiava in turbinava? direi di sì).

Prima stesura: Si sedeva con atteggiamento solenne e meditabondo, poi si toglieva il cappello, lo poggiava sul bancone e infine, con garbo, chiedeva un caffè. Aveva i baffi imperlati di ghiaccio. Henry gli serviva il caffè e una fetta di torta di mele e rimaneva dietro al bancone mentre l’uomo beveva il caffè corretto col whisky. A volte, dopo che Kuzitski aveva mandato giù il secondo caffè, Henry si metteva a parlare del suo cuore.

Stesura finale: Si sedeva con atteggiamento solenne e meditabondo, poi si toglieva il cappello, lo poggiava sul bancone e infine, con garbo, chiedeva un caffè. Aveva i baffi imperlati di ghiaccio. Henry gli serviva anche una fetta di torta di mele e rimaneva dietro al bancone mentre l’uomo beveva il caffè corretto col whisky. A volte, dopo che Kuzitski aveva mandato giù la seconda tazza, Henry si metteva a parlare del suo cuore.

Qua ci sono banalmente troppi caffè – in inglese non dà fastidio, in italiano sì. Perciò bisogna capire come aggirare l’ostacolo. Per esempio, se scrivo gli serviva anche una fetta di torta, presumo si capisca che gli serve la fetta di torta e il caffè. Allo stesso modo, poco dopo, posso scrivere che manda giù la seconda tazza, tanto lo sappiamo cosa sta bevendo.

Prima stesura: La gente commentava quella vena di violenza che balenava in Henry Soames (pur compatendolo, aveva qualcosa di inquietante) osservando che, col senno di poi, non era venuta fuori dal nulla.

Stesura finale: La gente commentava quella vena di violenza che balenava in Henry Soames (pur compatendolo, aveva qualcosa di inquietante) osservando che, col senno di poi, c’erano già state delle avvisaglie.

Qui la questione è un po’ diversa, non si tratta di ripetizioni o di assonanze, ma di naturalezza. Nel primo caso, la traduzione è molto letterale, ma non funziona, nessuno scriverebbe una cosa del genere in italiano. Inizialmente avevo pensato a qualcosa tipo: non era un fulmine a ciel sereno, ma mi sembrava troppo carica e idiomatica in quel contesto, tanto più che l’inglese è assolutamente piano, per cui ho optato per c’erano già state delle avvisaglie.

Certo, è un lavoro lungo, a tratti anche noioso e perfino frustrante, ma è necessario, soprattutto su un testo come questo, che non pone chissà quali difficoltà né in termini di comprensione né di resa linguistica. Ed è un lavoro che può fare la differenza perché il confine tra un testo pulito, semplice e un testo scialbo, sciatto è molto sottile.


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