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Non tutte le pubblicità sono uguali

Proprio come prometteva la pubblicità, bastò versarne un tappo per sciogliere ogni traccia di impurità.

First reaction: bleah.

Mentre scrivevo questa frase, perfettamente consapevole di averci infilato la rimaccia pubblicità/impurità, sapevo che avrei dovuto sistemarla e riscriverla.

Quale potrebbe essere un sinonimo di pubblicità?, mi sono chiesta. Réclame, ho pensato. Sì, è un termine un po’ antiquato, oggi lo usa solo Antonella Clerici, però la scena si svolge nel 1979, perciò un tocco vintage potrebbe starci.

Che alternative ho?, mi sono chiesta. Magari potrei scrivere: Proprio come prometteva lo slogan, ma il mio originale non parla di slogan, è un banalissimo as advertised. Magari l’ipotetico slogan dice tutt’altro, e il fatto che basti versane un flacone per sciogliere – che poi sono sicura di sciogliere? non sarebbe meglio dissolvere? un problema alla volta, questo lo risolviamo in un secondo momento – ogni traccia di impurità si evince dallo spot.

E quindi? Come pubblicizzato? No, orribile. Come promesso e basta? Ma promesso da chi? E se mi buttassi su spot pubblicitario o solo su spot? Troppo televisivo, tutt’al più radiofonico, e magari questa è una pubblicità diversa, sui cartelloni o sui giornali, vai a sapere.

Davvero réclame non posso usarlo? Siamo sicuri sicuri? Mi risolverebbe un sacco di problemi réclame. No, perché io ho la ragionevole certezza che réclame mi verrebbe contestato in fase di revisione e mi troverei punto e a capo. Come ne esco?

Sembra un vicolo cieco, un enigma per solutori più che abili. Invece no, in realtà è una bazzecola. Sono io che ho sbagliato approccio, che mi sono fissata su uno dei due termini problematici e ho perso di vista il quadro generale.

Basta spostare lo sguardo ed ecco che la soluzione è lì, proprio davanti ai miei occhi.

Lascio tranquilla la pubblicità e mi concentro su impurità che può diventare, senza grossi sforzi e senza grossi danni, sporco.

Proprio come prometteva la pubblicità, bastò versarne un tappo per sciogliere ogni traccia di sporco.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Formule ricorrenti e variazioni

Come scrivevo qui, prima di cominciare a tradurre un nuovo libro, cerco di farmi un’idea di quali saranno i problemi principali che dovrò affrontare.

Il romanzo che sto traducendo adesso e che mi farà compagnia per tutta l’estate, per mia fortuna, non sembra essere particolarmente problematico, ma ho subito capito che la mia autrice usa un elemento stilistico che mi darà non poche gatte da pelare.

Stile formulare, niente di nuovo per chi abbia letto Omero e un po’ di epica ma anche per chi abbia familiarità con le narrazioni orali.

Qua ci starebbe una bella parentesi sulla tradizione letteraria africana, sul suo debito dei confronti dell’oralità, ma anche no.

Per intenderci, la mia autrice usa delle formule – più o meno lunghe – che si ripetono nel corso di tutto il libro, a volte con qualche leggera variazione.

Qualche esempio:

the government-issued, bungalow-style house with whitewashed walls and no veranda;

a colonial-style house with French windows, a red wraparound veranda and
an English rose garden
;

the patch of grass that masqueraded as a lawn and stood where a veranda should have been.

Ora, in casi del genere, i problemi sono essenzialmente tre.

Tanto per cominciare, visto che sono formule che tornano frequentemente, non puoi permetterti di tirarle via, perché se qualcosa non torna o non funziona o non scorre, magari al lettore sfugge la prima volta, ma a un certo punto se ne accorgerà.

In secondo luogo, devi fare attenzione a ogni minima variazione. Perché se hai dieci volte the patch of grass that masqueraded as a lawn and stood where a veranda should have been e poi, di colpo, the small patch of land that constituted their front yard, ti tocca trovare il modo per richiamare la formula “regina” da un lato, ma variare volta dall’altro – proprio come succede nell’originale.

Ma la rogna più grossa è un’altra. Queste formule sono inserite in un contesto più ampio: c’è sempre qualcosa che viene prima e qualcosa che viene dopo, ed è lì che bisogna fare attenzione, molta attenzione. In sostanza, bisogna riuscire a tradurre la formula in modo che si adatti a tutti i contesti/ecosistemi linguistici in cui è inserita.

Prendiamo questo caso: where the government-issued, bungalow-style house with whitewashed walls and no veranda that he called home was situated. Se usassi casa per tradurre la formula ricorrente, che pesci piglierei quando compare home?

Insomma, sono consapevole che mi trascinerò questi problemi dalla prima all’ultima pagina e che, solo a prima stesura finita, potrò trovare delle soluzioni definitive – perché magari, nell’ultima pagina, mi capita l’ennesima variazione che mi costringe a smontare di nuovo tutto da capo.

Per non impazzire, nel frattempo, tengo traccia: ogni volta che compare una di queste formula la evidenzio sul mio documento di Word e, se è il caso, annoto in un commento a margine eventuali variazioni rispetto alla formula “regina”. E chiedo all’universo di mostrarsi clemente e non mettermi troppo i bastoni tra le ruote.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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La traduzione è una maratona

La traduzione è una maratona – non ricordo chi lo ha detto, ma chiunque sia stato ci ha preso in pieno. E chiunque abbia fatto qualche corsetta nella vita, sa perfettamente che una maratona non si improvvisa, va preparata.

Cominciare a tradurre un libro nuovo, per me, è un po’ come preparare una maratona – una mezza, dai, che io lì mi sono fermata nei miei ferventi anni da runner dilettante.

E visto che mi accingo a cominciare a tradurre un nuovo libro, ho pensato di raccontare come mi organizzo.

Prima di tutto, cerco di farmi un’idea del tempo che potrei metterci, dettaglio fondamentale per capire se i termini di consegna proposti dall’editore sono ok o se invece devo trattare per rosicchiare qualche settimana in più. Faccio dei calcoli di massima, trasformando mentalmente le pagine in cartelle, e mi chiedo: quante pagine/cartelle al mese riuscirò a tradurre? quanto ci metterò per la prima e la seconda rilettura? E poi aggiungo un margine (un mese, di solito) per far fronte a eventuali imprevisti. Se troviamo un accordo, cioè se i termini di consegna fanno contenti tutti, si parte.

A quel punto, su un apposito quadernetto (sì, sono antica, vivo in una sorta di modalità mista, un po’ digitale e un po’ analogica), preparo la tabella di marcia. E quindi mi ritrovo con una sorta di specchietto-guida, suddiviso in settimane, che mi dice da tale data a tale data devi fare tot pagine, da pagina x a pagina y, fino alla settimana più bella, quella dove c’è scritto fino alla fine. A quel punto si ricomincia, con un altro specchietto-guida, stavolta per la prima rilettura, sempre allo stesso modo: da tale data a tale data devi rileggere/riscrivere da pagina x a pagina y, ancora una volta fino alla fine. E, infine, terzo specchietto-guida, stavolta per la seconda rilettura, come sopra.

Conclusa la fase organizzativa, giunge il momento di mettere le mani in pasta, ovvero di cominciare a tradurre.

Premetto che io non leggo (quasi) mai il libro, prima di iniziare a tradurre. O meglio, non lo leggo (quasi) mai per intero. Non tanto perché non abbia il tempo o la voglia, ma perché non ne ho bisogno.

Leggere il libro prima può essere utile, può servire a entrarci dentro, a prendere le misure di una serie di cose: lo stile, in primis, ma anche i problemi/le difficoltà che bisognerà affrontare in corso d’opera. Ma, salvo casi particolari, ci si riesce anche leggendo giusto 20-30 pagine, che poi è quello che faccio io.

Lette quelle 20-30 pagine, creo il documento di Word che mi terrà compagnia nei mesi a venire. E inizio finalmente – ! – a tradurre.

Di solito passo molto, moltissimo tempo sul primo capitolo, e riscrivo, limo, mi sbatto la testa al muro finché non ottengo una versione soddisfacente, che considero quasi definitiva – ovvero quasi pronta per il visto si consegni. E lo faccio anche quando non mi chiedono una prova per decidere se assegnarmi il libro o no, perché è qualcosa che serve a me. Mi serve perché mi permette di testarmi, di capire se l’idea che mi sono fatta leggendo le prime 20-30 pagine è corretta o campata in aria, di intuire cosa andrà liscio e dove mi impantanerò – è un libro pieno di riferimenti culturali e richiederà tante ricerche? ci sono molti termini tecnici? citazioni come se piovesse? giochi di parole ogni due per tre? – e soprattutto mi consente di definire la mia strategia traduttiva – a cosa devo dare la precedenza? al ritmo, all’atmosfera, alla precisione lessicale…?

A quel punto, e solo a quel punto, comincia per me il lavoro vero. Lavoro vero che consiste nella prima – invereconda – stesura, seguita da una vera e propria riscrittura, da una rilettura attenta e da un’ultima rilettura finale, veloce.

Ovviamente, proprio come succede quando si prepara una maratona, non è sempre tutto in discesa o lineare. Per gran parte del tempo, mi ronza nella testa quella simpatica vocina che mi dice: Oddio che schifezza che stai facendo, sei una capra, non sai l’inglese, non sai l’italiano, non riuscirai mai a consegnare una roba neppure lontanamente decente, non lavorerai mai più, datti al giardinaggio. Finché, come ogni volta, si compie il miracolo.


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Foreigness and domestication in pratica

Dal post sui crisantemi è nata una discussione interessante in separata sede.

Alla base, una domanda: decidere di adattare non significa rischiare di appiattire e azzerare del tutto i riferimenti culturali? Riposta: sì ma anche no.

Partirei da una premessa: non tutti i libri sono uguali.

In certi libri, la foreigness è la colonna portante, e in quel caso va mantenuta – e perfino difesa con le unghie e con i denti, se necessario. In altri libri, invece, ci sono elementi di foreigness buttati qua e là, in maniera del tutto casuale, e lì sì che bisogna valutare, volta per volta, come agire.

Non solo, perfino all’interno dello stesso romanzo, può essere opportuno mantenere la foreigness in un caso optare per la domestication in un altro.

Piccola parentesi: per la teoria, rimando – appunto – ai teorici; io, umile manovale abituata a sporcarsi le mani, resto nel mio, ovvero nella pratica.

Mi è venuto in mente che, l’anno scorso, mi sono trovata a dover gestire il problema della foreigness e della domestication ogni due per tre, visto che traducevo un romanzo era in gran parte costruito sul clash culturale Stati Uniti vs. Francia.

Di base, c’è questa donna, un’americana, che dopo aver vissuto per vent’anni in Francia, in un delizioso paesino provenzale, torna negli USA, nello specifico in California.

Nel libro, che peraltro è ambientato in parte in Francia e in parte a San Francisco, i due Paesi sono costantemente messi a confronto: sul piano linguistico, gastronomico, immobiliare, sanitario, legale – e via discorrendo.

Il lettore anglofono, ovviamente, percepirà quel clash culturale, tutte le volte che si imbatterà in termini, luoghi, costumi e simili amenità tipicamente francesi. Il lettore italiano, invece, rischierebbe di percepire il clash culturale due volte, non solo imbattendosi in termini, luoghi, costumi e simili amenità tipicamente francesi, ma anche imbattendosi in termini, luoghi, costumi e simili amenità tipicamente americani. E, forse, sarebbe un po’ troppo.

Quindi, di base, ho scelto di mantenere la foreigness sul fronte francese, e di optare invece per la domestication su quello americano.

In realtà, mi rendo conto solo adesso che, all’epoca, non ci ho riflettuto nemmeno più di tanto, o per lo meno, non in termini di strategia traduttiva consapevole. Del resto, quando si traduce, entra in gioco anche l’istinto.


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Una rosa è una rosa è una rosa, ma un crisantemo?

Mentre scrivevo il post sul tuxedo sofa, mi è tornato in mente un problema di traduzione che risale a diverse vite fa. In quel caso non si trattava di divani ma di fiori.

Nel post che ho appena citato, scrivevo – tra le altre cose – che se avessi semplicemente cambiato modello di divano, facendolo diventare, che so, un Chesterfield, la mia sarebbe stata una scelta arbitraria e immotivata. In altri casi, però, una scelta del genere potrebbe essere legittima.

Dunque, nel romanzo che stavo traducendo diverse vite fa, durante una partita di – football? baseball? boh, chi se lo ricorda più – le ragazze sugli spalti avevano dei crisantemi appuntati – sulle divise? tra i capelli? boh, chi se lo ricorda più.

Una delle poche cose che ricordo è la mia reazione di fronte a quel passaggio, di fronte a quei crisantemi, ovvero un grosso: EH??? Perché io, italiana, associo il crisantemo a morti e cimiteri. Negli USA, però, il crisantemo non ha nessuna connotazione funerea, anzi è un fiore festivo.

Cosa si fa in questi casi? Si riflette, si valutano pro e contro, e si prendono decisioni, anche a costo di toppare – perché tradurre non è solo il mestiere di riflettere, è soprattutto il mestiere di decidere.

Io, non volendo assolutamente che il lettore italiano reagisse con un grosso EH???, che è chiaramente un eufemismo – o una traduzione? – per WTF???, ho pensato che mi toccava cambiare fiore.

Breve digressione: quando traduco un romanzo, cerco sempre di tenere a mente quale potrebbe essere la reazione del lettore madrelingua e provare a suscitare – nei limiti del possibile – la stessa reazione nel lettore che legge il libro in traduzione. E qui, proprio perché negli USA, e presumo nel mondo anglofono in generale, il crisantemo non è assolutamente associato alla morte e ai cimiteri, non ci sarebbe stata nessuna reazione. Fine della digressione.

Ecco perché, in un caso come quello, cambiare fiore non mi sembra una scelta arbitraria e immotivata.

Ovviamente non ricordo più cosa sono diventati quei crisantemi – forse delle zinnie? Però so esattamente in che modo ho ragionato mentre cercavo il fiore sostituto. Mi sono mossa all’interno della stessa famiglia, dello stesso periodo di fioritura, ho guardato un sacco di foto cercando qualcosa che, anche visivamente, non fosse completamente diverso dal crisantemo.

Piccola nota: ora che ci penso, avrei potuto sfangarla in modo più rapido, trasformando i crisantemi in generici fiori.


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Quattrocento volte gli occhi al cielo

Non tutti sanno che chi traduce (soprattutto chi traduce dall’inglese) probabilmente la notte sogna gente che strabuzza gli occhi, inarca un sopracciglio, scrolla le spalle e allunga arti a caso.

A questo proposito, ho sviluppato una teoria che non ha alcuna base scientifica, ovvero: più cose del genere ci sono in un libro, più il libro è una ciofeca. E no, non è una questione di show don’t tell, è pura e semplice sciatteria. Perché è vero che, in generale, il lettore italiano si sfastidia più facilmente di quello anglofono, ma al settantaduesimo he said/she said, ve lo garantisco, anche a lui verrà voglia di lanciare il libro dalla finestra.

Di solito, il traduttore esperto e avvertito, soprattutto se è alle prese con un libro venduto – spacciato? – come literary fiction (qui, immaginate un facepalm), si sforza di far sparire buona parte di quei tic. Perché tradurre, purtroppo, certe volte ti costringe a fare anche altro: a editare, a riscrivere.

Ora, ridurre il numero di occhi al cielo, sopracciglia inarcate, spallucce e via dicendo non è chissà quale impresa. Dopo un po’, infatti, diventa quasi automatico. Il problema vero, in un romanzo dove i personaggi alzano quattrocento volte gli occhi al cielo, è un altro. Come dicevo prima, i libri così sono sciatti e i libri sciatti sono rogne.

E se vuoi – devi? – trasformare un libro sciatto in un libro quasi decente – cosa che, peraltro, certe volte ti chiede l’editore, quando te lo assegna, anticipandoti che: Come vedrai, la lingua è un po’ povera, piatta, mi raccomando, alza un po’ l’asticella, rendilo brillantesuderai le proverbiali sette camicie. Non tanto perché ti toccherà sobbarcarti un lavoro che, tecnicamente, non è nemmeno il tuo – vedi sopra alla voce: tradurre, editare, riscrivere – quanto perché, ogni volta che inciamperai in un problema, in una difficoltà, il testo non ti fornirà nessun indizio, nessuna soluzione.

Cos’è che distingue una ciofeca da un buon libro? La coerenza interna, che è prima di tutto – ma non solo – coerenza stilistica. E se c’è quella, è fatta – più o meno. In quei casi, è il testo a guidarti, a indicarti la via, a suggerirti cosa fare, quali decisioni prendere, anche quando ti sembra di brancolare nel buio.


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Un divano è un divano è un divano

In linea generale – e badiamo bene, là dove c’è una regola o anche solo un criterio generale, c’è sempre almeno un’eccezione – penso che i nomi, cioè i sostantivi – ma non quelli astratti – vadano via abbastanza lisci, senza creare chissà quali rogne. Eppure.

Attenzione, trigger warning: filosofi del linguaggio e bimbi di Wittgenstein, non continuate a leggere o potreste avere un malore.

Una sedia è una sedia, no? Dipende. Perché, per esempio, chair può sì essere una sedia, ma può anche essere una poltroncina. Una casa è una casa, giusto? Insomma. Perché se io ti dico come to my home, ti sto sì invitando a casa mia, ma casa mia potrebbe essere un appartamento, un castello o perfino una palafitta. Se invece ti dico come to my house, ti sto ancora invitando a casa mia, ma sto facendo qualcosa di più, ti sto dando anche informazioni sul tipo di posto dove abito, che non è un appartamento, né un castello e neppure una palafitta.

Questi però, il più delle volte, non sono problemi insormontabili. Nella stragrande maggioranza dei casi, come dicevo prima, vanno via abbastanza lisci, un po’ per mestiere, un po’ perché probabilmente il testo ci offre una serie di indizi che ci aiutano a imbroccare la strada giusta.

D’altro canto, non tutti i nomi sono uguali – e alcuni nomi sono meno uguali di altri.

L’altro giorno, per dire, mi sono imbattuta in un tuxedo couch. Ovviamente, non sapendo di che tipo di divano si trattava, ho fatto quello che fa qualsiasi traduttore ansioso di finire le paginette del giorno e spegnere il pc, ovvero: ho cercato sul dizionario. Naturalmente il bilingue non mi è stato di nessun aiuto, ma il monolingue ha fatto il suo sporco lavoro – o quasi.

Ecco la definizione che dà il Merriam-Wester del tuxedo sofa (o couch che dir si voglia):

an upholstered sofa with slightly curved arms that are the same height as the back

Comincio a farmi un’idea, ma è ancora troppo vaga, quindi il passo successivo è una bella ricerca per immagini – grazie Google, TVB.

E là, avviene il primo cortocircuito. Nella maggior parte delle foto di tuxedo sofa(s) che vedo, i braccioli non mi sembrano curved, nemmeno slightly curved. Penso: sii gentile, Merriam-Webster, non portarmi fuori strada. E nel frattempo mi viene in mente un altro tipo di divano che, per certi aspetti, un po’ somiglia a questo tuxedo sofa, ovvero il Chesterfield.

Sono perfettamente consapevole che si tratta di due modelli diversi, ma almeno ho qualcosa da cui partire, una chiave di ricerca per approfondire. Scopro, cosa che a questo punto non mi stupisce più di tanto, che qua e là esistono articoli dove si mettono a confronto proprio i due modelli. Dunque, il tuxedo è considerato una specie di “cugino” del Chesterfield, e la differenza più evidente tra i due sta proprio nei braccioli: arrotondati o leggermente arrotondati quelli del Chesterfield, squadrati quelli del tuxedo – capito Merriam-Webster?

C’è solo un ma, ed è questo: come cribbio si chiama in italiano questo simpatico tuxedo sofa? Chiaramente non ne ho idea. Online, trovo delle occorrenze per divano tuxedo, ma non fanno molto testo, visto che compaiono quasi esclusivamente su e-commerce di divani e simili. E sono ragionevolmente convinta che il mio lettore ideale (sì, quando traduco ho sempre in mente un lettore ideale che, a suo modo, mi guida in certe scelte), di fronte a un ipotetico divano tuxedo proverebbe un attimo di smarrimento e perplessità, che forse si fermerebbe a chiedersi cosa diamine è un divano tuxedo, perdendo di vista quello che conta davvero in quel punto del libro – spoiler: non è il modello del divano che conta.

Mi chiedo: qual è il peso specifico di questo tuxedo sofa in questo libro, in questa pagina, in questo paragrafo, in questo rigo? Mi rispondo: è un peso specifico trascurabile. Non conta sapere esattamente di che modello di divano stiamo parlando, ma capire cosa veicola quel modello di divano. E cosa veicola, qui e ora? Benessere e un certo privilegio.

E quindi? Che faccio? Ovviamente non cambio modello di divano, sarebbe una scelta arbitraria oltre che immotivata. E visto che non voglio mettere i bastoni tra le ruote al mio lettore ideale – non qui, non ora – decido che il tuxedo sofa diventerà, in italiano, un divano capitonné.

Pur essendo un termine di origine straniera, capitonné è stato da lungo tempo accolto nei dizionari italiani. E benché indichi una specifica lavorazione blablabla, in certi ambiti è diventato quasi un sinonimo di imbottito – e la prima cosa che ci dice il Merriam-Webster, e che ci hanno confermato le immagini, riguardo al tuxedo sofa è che è upholstered, ovvero imbottito. Al mio orecchio, tra l’altro, un divano capitonné, forse per la sua allure francese, evoca benessere e una punta di privilegio.

Va da sé che questa soluzione non sarebbe stata convincente in altri casi. Se, per esempio, la mia protagonista fosse un’arredatrice di interni, intenta a sciorinare modelli di divani a una cliente alle prese con un rinnovo del mobilio, non me la sarei cavata così facilmente. Stavolta mi è andata di lusso, via.


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Catching Fire, il “miracolo” della traduzione

Qualche giorno fa ho letto Catching Fire: A Translation Diary di Daniel Hahn. Come recita il sottotitolo, è un diario di traduzione ed è il libro più brillante, onesto e “crudo” che abbia mai letto sull’argomento. Zero fuffa, zero supercazzole, zero elucubrazioni teoriche sui massimi sistemi, ma tanta vita vera – insomma, proprio quello che piace a me.

Daniel Hahn, che traduce narrativa dallo spagnolo, dal portoghese e dal francese, ha raccontato in presa diretta i mesi trascorsi in compagnia di Jamás el Fuego Nunca, romanzo della scrittrice cilena Diamela Eltit (pubblicato in Italia da gran vía, nella traduzione di Raul Schenardi, con il titolo Mai e poi mai il fuoco). Messa così, non sembra un’operazione particolarmente interessante o innovativa, me ne rendo conto. E invece.

Daniel Hahn, infatti, fa qualcosa che nessuno, almeno così mi pare, ha mai osato fare prima: ha squarciato il velo.

Sono ragionevolmente convinta che, fatta eccezione per i traduttori, nessuno sappia cosa succede realmente in quel lasso di tempo – più o meno lungo – che va dal giorno in cui si apre per la prima volta un libro e il relativo documento di Word e quello in cui, finalmente, si allega il lavoro finito alla mail per l’editore. Succede una cosa grossa: dal nulla – o quasi – nasce un libro, o quello che diventerà un libro che, come dice Hahn, è uguale – e allo stesso tempo completamente diverso – dall’originale. Ma non succede dall’oggi al domani. E soprattutto non succede in maniera indolore, se così posso dire.

Apro una piccola parentesi. Da un po’ di tempo, mi ronzava in mente l’idea di scrivere qualcosa per provare a raccontare proprio quel processo non lineare che comincia con una prima stesura spesso raccapricciante e si conclude con una stesura definitiva – o quasi, visto che poi ci sarà anche la revisione. Solo che non ho mai trovato il coraggio di farlo. Perché, ve lo garantisco, per mostrare a qualcuno una prima stesura – ma anche una seconda e, spesso, pure una terza – ci vuole il pelo sullo stomaco.

Io, per dire, di fronte a una mia prima stesura, vorrei sempre e solo piangere, strapparmi i capelli, sbattermi la testa al muro e, sempre, mi dico: ma questa cosa immonda e orripilante diventerà mai dicente? Spoiler: sì. Tutte le volte si compie il miracolo. Miracolo che, però, è il frutto di emicranie, bruciore d’occhi, schiena ingobbita, gambe anchilosate, sporadiche crisi di nervi – e, per chi è particolarmente sfortunato, di tanto in tanto, anche sfoghi cutanei.

Apro un’altra piccola parentesi. Di fronte a quelle mie prime stesure invereconde, mi dico sempre: sicuramente fa così schifo perché io sono una capra, e di certo le prime stesure delle mie amiche e colleghe saranno belline, pulitine, non ci saranno parole e frasi evidenziate ogni due per tre, e tutta una serie di obbrobri inenarrabili. Per farvi capire, quando finisco la prima stesura, io non dico mai: devo cominciare la rilettura ma: ora devo riscriverlo in italiano.

Certo, ognuno di noi lavora in modo diverso. Sono sicura che qualcuno produce prime stesure più dignitose delle mie – o di quelle di Hahn. Ma sono anche abbastanza convinta del fatto che nessun traduttore pensi di averla sfangata quando arriva alla fine di quella fase lì. Del resto, con il tempo e con l’esperienza, ciascuno scopre qual è il metodo che funziona meglio per lui/lei. Io, per esempio, in prima stesura, mi concentro principalmente sulla voce, sul tono. Devo necessariamente stare nel flow, e se mi fermassi ogni mezza riga per fare ricerche, risolvere dubbi, sciogliere nodi, altro che flow. Ci ho provato, non ha funzionato. Amen. In seconda stesura, invece, come dicevo prima, riscrivo in italiano. Quella è la fase in cui, cerco di risolvere gran parte di quello che ho lasciato in sospeso, ma è soprattutto il momento in cui mi concentro sulla forma, sulla fluidità, sulla naturalezza. La terza stesura, che non è più una vera e propria stesura ma una rilettura, è quella in cui limo: affino il lessico (per esempio, scegliendo verbi e aggettivi più pertinenti), il ritmo, vado alla ricerca di allitterazioni e rime interne fastidiose, casso le ripetizioni e via dicendo. A quel punto, resta la quarta e ultima lettura, quella velocissima, quella del lo leggo come se stessi leggendo un libro per puro piacere. Di solito, è una fase abbastanza indolore, quella in cui sistemo le ultime cosette, prima del visto si alleghi.

Sarò sincera. Il processo è logorante. Tutte le volte mi riprometto di cercare di produrre una prima stesura migliore. Giuro che ci provo ma niente, non funziona, non funziono così. Nei momenti di sconforto, mi dico: zia, vai tranquilla, sta schifezza di prima stesura, come sempre, per miracolo – a proposito del miracolo, vedi sopra – diventerà qualcosa di decente.

Dunque, non solo conoscere bene la lingua da cui si traduce, conoscere benissimo quella verso cui si traduce, avere una spiccata sensibilità letteraria, come dicevo qui. Un buon traduttore deve essere paziente, avere i nervi saldi, il suo motto dovrebbe essere calma e gesso, insomma. C’è chi ci nasce, c’è chi (hello world!) deve imparare. Ma o quello o la neuro.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Piccoli scarti culturali

Premessa necessaria: purtroppo, non riesco a svestire mai i panni della traduttrice, neppure quando leggo per puro diletto. Perciò mi capita spesso di starmene lì, con il mio bel romanzetto, convinta di rilassarmi, e invece il mio cervello parte per viaggi lunghissimi – spesso di sola andata.

Nei giorni scorsi, per esempio, stavo leggendo un romanzo francese, e ogni due per tre, come mi succede sempre, mi domandavo: questo come lo tradurrei? Finché uno dei tanti questo come lo tradurrei? mi ha – giustappunto – fatta partire per un lungo viaggio.

Ecco il passaggio “incriminato”:

Est-ce que j’aurais envie de faire du sport en équipe, comprendre qu’on me hurle « Putain, la balle ! », aller dans des pubs partager des small talks, faire carrière dans le marketing, répondre au téléphone avec l’aisance de Cathy+, gérer des équipes, faire des brainstormings, avoir des responsabilités, aller voir des films français.

Un po’ di contesto: la giovane protagonista sta per sottoporsi a un impianto cocleare e immagina una serie di cose che potrà finalmente fare una volta recuperato l’udito. Cose comuni, perfino banali per chi ci sente: fare sport di squadra, fare due chiacchiere al pub, lavorare nel marketing, rispondere al telefono, coordinare un team, partecipare ai brainstorming, avere responsabilità, e andare a guardare film francesi.

Quando sono arrivata a quel punto, ho subito pensato: Eh no, in italiano così non funziona.

E non funziona perché i lettori italiani, per lo più, non sanno – e non sono tenuti a sapere – che in Francia, o almeno a Parigi, al cinema non danno film doppiati (o almeno ne danno pochissimi e in pochissime sale). I film stranieri, quale che sia la lingua, sono proiettati in VOSTF, cioè in versione originale con i sottotitoli in francese. Gli unici film non sottotitolati sono proprio quelli francesi. E questo mi fa supporre che la protagonista vada regolarmente al cinema, a vedere solo film stranieri però, perché essendo sottotitolati può seguirli, cosa che invece le riesce difficile con i film francesi.

Per chi ignora questo dettaglio, questo piccolo scarto culturale, una frase come andare a guardare film francesi non ha molto senso.

In un caso del genere, il traduttore dovrebbe porsi il problema e trovare una soluzione.

Come sempre, di soluzioni possibili ce ne sono tante, alcune più azzeccate (almeno secondo me), altre meno, ma tutte – appunto – possibili.

A qualcuno, per esempio, potrebbe venire in mente di tagliare il passaggio incriminato. Ragionamento: è una lista di cose, il senso si è capito, anche se omettiamo i film va bene uguale. Non sono d’accordissimo. Mi sembra una scelta pigra e ingiustificata.

Qualcun altro, magari, potrebbe pensare di semplificare e scrivere guardare film/andare al cinema (il cinema è sottinteso visto che dice aller voir, senza il cinema di mezzo non ci sarebbe stato aller ma un semplice voir). In questo modo però, mi sembra che il senso venga un po’ travisato: perché quella specifica sui film francesi mi porta a immaginare che la ragazza guardi film – magari solo quelli stranieri al cinema, magari altri a casa, in tv, con i sottotitoli per non udenti.

In un caso del genere, io mi muoverei in un’altra direzione, tentando – nei limiti del possibile – di salvare il salvabile e perdere meno informazioni possibili, e scriverei qualcosa tipo: andare a vedere anche i film senza sottotitoli. Certo, mi direte, qualcosa si perde comunque – ma la perdita è insita nella traduzione, si perde sempre qualcosa; il giochetto consiste nel tentare di bilanciare, di (ri)guadagnare altrove, in un perenne esercizio di equilibrio.

E la NdT? potrebbe dirmi qualcuno – anzi, mi ha detto qualcuno. Diciamo che la NdT è una specie in via di estinzione, generalmente poco amata da editori e redazioni – e io stessa non sono una sua grandissima fan, a meno che non sia davvero necessaria. E in questo caso – ma chiaramente potrei sbagliarmi – mi pare non lo sia.

I libri, i romanzi sono pieni di piccoli scarti culturali come questo, e se tutte le volte inserissimo una NdT non ne usciremmo più. Certo, sarebbe ben diverso se la ragazza fosse un’appassionata di cinema, se quel passaggio avesse un peso specifico importante nell’economia del libro, ma non è questo il caso.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Frasi semplici che nascondono insidie

La traduzione è un campo minato.

Spesso ci imbattiamo in passaggi in apparenza molto semplici che, però, nascondono diverse insidie.

Prendiamo questa frase:

The deep sea is a haunted house: a place in which things that ought not to exist move about in the darkness.

Non ha nulla di complicato, si capisce, non occorre nemmeno aprire un dizionario. E l’istinto potrebbe portarci a inserire il pilota automatico e a tradurre in modalità versione di latino. In quel caso, otterremmo qualcosa del genere:

Il mare profondo è una casa stregata: un posto in cui cose che non dovrebbero esistere si muovono nell’oscurità.

Ma questa traduzione non va bene: è pigra, sciatta, appiattisce alcune sfumature.

Proviamo a scomporre la frase, ad analizzarla nel dettaglio.

Scegliere di tradurre deep sea con mare profondo è cedere alla pigrizia. Quel deep sea, per me, è altro: sono le profondità marine o, ancora meglio, gli abissi marini.

E dunque: gli abissi marini sono una casa stregata?

Mi disturba il brusco passaggio dal plurale (gli abissi marini) al singolare (una casa stregata). In inglese, ricordiamocelo, era tutto al singolare, ma noi abbiamo trasformato deep sea in abissi marini. Perciò, secondo me, dovremmo continuare con il plurale:

Gli abissi marini sono case infestate.

Suona meglio no? Case stregate o case infestate sono più o meno equivalenti ma – e questa è una considerazione puramente soggettiva – le case stregate mi fanno pensare alle attrazioni dei parchi dei divertimenti, mentre le case infestate mi inquietano di più.

Ora passiamo alla seconda parte:

a place in which things that ought not to exist move about in the darkness.

Visto il ragionamento che abbiamo appena fatto, non un posto nel quale ma posti nei quali, dunque rimanendo ancora fedeli a quel plurale. Ma nei quali suona un po’ antiquato, formale, come in cui, perciò preferirei: posti dove.

E ancora: cose non dovrebbero esistere, giusto? Sicuramente things è cose – non creature o simili. E non c’è alcun motivo valido per intervenire e cambiare, peccando di hybris creativa. D’altro canto, la presenza di ought not to, e non di un più ordinario should not, mi fa drizzare le antenne. E mi spinge a trovare un modo per dargli risalto, perciò: cose che non dovrebbero nemmeno esistere.

Cosa fanno quelle cose che non dovrebbero neppure esistere? Si muovono nell’oscurità? Ni. Non abbiamo un semplice move ma un move about (che potrebbe essere anche un move around), dunque un bel phrasal verb – croce e delizia di qualsiasi traduttore. About, ovviamente, modifica il senso di move: connota quel movimento, lo caratterizza. Perciò quelle cose si aggirano nell’oscurità.

Proviamo a tirare le fila:

Il mare profondo è una casa stregata: un posto in cui cose che non dovrebbero esistere si muovono nell’oscurità.

Ovvero:

Gli abissi marini sono case infestate: luoghi dove cose che non dovrebbero nemmeno esistere si aggirano nell’oscurità.

Non è l’unica né, probabilmente, la migliore traduzione possibile. Ma è corretta e abbastanza fedele, dunque legittima.

Certo, cose e case così vicini disturbano un po’ il mio orecchio sensibile a ripetizioni, allitterazioni e cacofonie varie, ma – per fortuna o purtroppo – tradurre vuol dire anche accettare di scendere a compromessi, di tanto in tanto.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.