Nonostante tutto, tradurre mi piace. Certo, un po’ dipende anche dai libri. Potendo scegliere, eviterei quelli dove i personaggi alzano quattrocento volte gli occhi al cielo. E forse è anche per questo che, quando posso, cerco di fare un po’ di scouting.
Cosa significa, in soldoni, fare scouting? Significa cercare dei buoni libri non ancora tradotti/pubblicati in italiano e segnalarli/proporli agli editori.
Ecco, fare scouting mi piace molto. Ma, lasciatemelo dire, è una faticaccia e, come se non bastasse, questa faticaccia spesso non sfocia in nulla di concreto.
Per intenderci, se firmo un contratto per tradurre una ciofeca di quattrocento pagine, passerò mesi a sbattermi la testa al muro, chiedendomi chi me lo ha fatto fare, ma alla fine arriverà un bonifico. Perché, diciamolo forte e chiaro, è lavoro, quindi, alla fine della fiera, quello che conta è che ci paghi le bollette e ci fai la spesa.
Se invece passo settimane a setacciare, leggere, scartare finché non trovo qualcosa di valido, e poi passo altre settimane a buttare giù una scheda, a tradurre delle pagine, a selezionare editori potenzialmente adatti, a mandare mail, non è detto che succeda qualcosa. In termini puramente numerici, infatti, è abbastanza raro che una proposta di traduzione vada a buon fine e si trasformi in un contratto.
In realtà bisognerebbe fare una distinzione tra lo scouting su commissione e le proposte di traduzione spontanee.
Nel primo caso, quello dello scouting su commissione, è l’editore che ti dice: Sto cercando qualcosa così e cosà, hai dei titoli da segnalarmi? Nel secondo caso, quello delle proposte di traduzioni spontanee, è tutto più complicato.
Di base, ci sono due strade. La prima è, per così dire, più dritta. Esempio: muoio dalla voglia di lavorare con editore X, quindi adesso mi metto a cercare qualcosa che potrebbe fare al caso suo – e poi incrocio le dita. La seconda, invece, è decisamente più tortuosa: Esempio: leggo un po’ di roba che mi ispira, e appena trovo qualcosa di bello, cerco di capire a chi proporlo.
Ora, sorvolando su tutti gli impicci che ci sono a monte, come dicevo, questa strada è un po’ tortuosa perché non è detto che, alla fine, si trovi qualcuno a cui proporre quel bel libro.
Ed è quello che spesso succede a me. Metto gli occhi su romanzi che mi sembrano interessanti, li leggo, se mi piacciono mi assicuro che i diritti di traduzione siano liberi, poi preparo una scheda, traduco un po’ di pagine e a quel punto, in certi casi, il nulla cosmico, nel senso che non mi viene in mente nemmeno un editore potenzialmente adatto, e mi parte di default l’ambarabà ciccì coccò questo libro a chi lo do?
Sul mio computer, ho una cartella che si chiama “scartati”. Lì ci sono dei libri bellissimi ai quali non sono riuscita, nonostante l’impegno e gli sforzi, a trovare un editore. Su alcuni, ci ho messo una croce sopra. Su altri, invece, ci spero ancora. Su uno in particolare: il romanzo più pazzesco che ho letto negli ultimi anni, del tutto inadatto al mercato italiano, che è anche piaciuto a qualche editor che però mi ha detto, senza troppi giri di parole, che è too much, venderebbe al massimo tre copie. E ci sta, ci mancherebbe.
E quindi? Il succo è che si è creato una specie di alone mistico attorno alle proposte di traduzione, negli anni. Come fossero un passe-partout che apre tutte le porte. E certo, ci si fa notare di più proponendo un bel libro che mandando un cv. Ma, come spesso accade, la realtà è un po’ più complessa di come ce la raccontano.
DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.