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Le nostre mogli negli abissi – NdT

Ogni libro difficile è difficile a modo suo – credo di averlo già scritto in passato. E Le nostre mogli negli abissi è stato, per me, un libro difficile per diverse ragioni.

In primo luogo perché è un romanzo bellissimo, che ho amato profondamente, quindi volevo rendergli giustizia. E poi perché ha una voce tanto riconoscibile quanto impervia, che andava preservata a tutti i costi.

La scrittura di Julia Armfield è spigolosa, a tratti aspra, più evocativa che esplicativa. E Le nostre mogli negli abissi è un libro di atmosfere e di non detti. Non ci sono strizzatine d’occhio, ammiccamenti, artifici retorici. Tutto è estremamente essenziale, affilato. Insomma, colpisce e affonda. E, per ovvie ragioni, doveva essere così anche in italiano. E per me, che sono abituata a voci più sbarazzine, forse più compiaciute – e talvolta perfino autocompiaciute – è stata una bella sfida.

Non solo. In questo libro è importantissimo il ritmo. Il ritmo della struttura narrativa, come quello della scrittura, sembra riprodurre il moto ondoso. Il romanzo è narrato da due voci diverse, quella di Miri e quella di Leah, che si alternano dall’inizio alla fine. Ed è un continuo andirivieni tra presente e passato – e passati, al plurale – ma anche tra un luogo e l’altro – tra la terraferma e l’oceano. Per riprodurre quel movimento, mi sono in larga parte affidata ai verbi, sfruttando la ricchezza dei passati della lingua italiana, e muovendomi quindi tra presente e passato prossimo, trapassato prossimo e passato remoto, a seconda dei casi.

Le nostre mogli negli abissi mi ha costretta a immergermi – e non solo in senso figurato – nel testo, a scandagliarne ogni sfumatura, anche quelle apparentemente invisibili – si fa con tutti i libri, direte voi; sì e no, rispondo io.

C’è poi un’altra cosa che vorrei aggiungere. Spesso, a distanza di tempo, dimentichiamo (quasi) tutto dei libri che abbiamo tradotto, tranne un dettaglio: cosa succedeva mentre lo traducevamo – cosa succedeva nella nostra vita, nel mondo fuori. Ecco, mentre traducevo Le nostri mogli negli abissi – nel corso di un’estate torrida, mentre tutto intorno andava letteralmente a fuoco – per qualche giorno non si è parlato d’altro che della vicenda del sommergibile scomparso nei pressi dei relitti del Titanic. Confesso di aver fatto una gran fatica a seguire la cronaca in quei giorni perché una parte di me – quella parte che da settimane si trovava negli abissi con Leah – conosceva già l’epilogo.

Julia Armfield

Le nostre mogli negli abissi

Bompiani

pp. 240


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Affamata – NdT

Ripeto di continuo che di traduzione non si parla abbastanza e che, quando se ne parla, se ne parla spesso male. E ora che ho l’occasione di scrivere di traduzione, di fronte al documento bianco, mi chiedo: Cosa avrò mai da dire io sulla traduzione? E nello specifico sulla traduzione di Affamata di Melissa Broder? 

La verità è che ne avrei di cose da dire, ne avrei tantissime. Ma ho paura che potrebbero risultare noiose, mortalmente noiose. A chi importa perché, dopo infinite tribolazioni, ho scelto di usare un tempo verbale anziché un altro? A chi interessa come ho risolto un gioco di parole o come ho gestito un riferimento culturale? Secondo me a nessuno. E forse è un peccato. O magari è giusto così.

Perciò ho deciso di parlare di altro, di quanto mi sono divertita prima a leggere e poi a tradurre questo libro

Magari qualcuno storcerà il naso di fronte a questa mia affermazione. Com’è possibile divertirsi leggendo un romanzo che affronta argomenti tutt’altro che allegri, argomenti che potrebbero perfino triggerare più di un lettore? Eppure, non solo mi sono divertita, ma in certi momenti mi sono letteralmente sbellicata dalle risate. Perché quegli argomenti sono trattati, analizzati e raccontati da una voce al tempo stesso fresca e corrosiva, che fonde candore e cinismo. E io trovo il risultato irresistibile.

Ecco, la voce. Una voce briosa, irriverente, a tratti sfrontata. L’ho ascoltata a lungo, ho cercato di sintonizzarmi sulle sue frequenze, di adattarmi non solo al suo lessico e alla sua sintassi, ma anche e soprattutto al suo respiro, al suo ritmo, al suo flow. E per provare a riprodurla, seppure con le parole e le strutture di un’altra lingua, ho dovuto accantonare l’italianetto di plastica nel quale tante volte, un po’ per pigrizia e un po’ per mancanza di coraggio, ci rifugiamo, e mettermi a frugare dentro a un baule dove, nel corso degli anni, avevo gettato alla rinfusa parole ed espressioni che, come per magia, ho ritrovato, parole ed espressioni così vivide e goderecce che, in certi momenti, avevo quasi paura a usarle. 

Appiattire e banalizzare una lingua come quella di Melissa Broder, però, sarebbe stato un sacrilegio. Così come sarebbe stato un sacrilegio non provare a restituire tutti gli eccessi della sua scrittura straripante, una scrittura non solo immaginifica – le immagini si rincorrono, si affastellano, si sovrappongono – ma anche sinestetica, perché a essere sollecitata non è solo la vista, tutti e cinque i sensi sono costantemente chiamati in causa: oltre alle immagini, infatti, in Affamata abbondano i sapori, gli odori, le consistenze e i suoni – del resto, come dicevo a un amico, è un libro fatto per il 60% di cibo, per il 30% di sesso e per il restante 10% di ebraismo e mommy issues.

Se la traduzione non è un pranzo di gala – e non lo è – in definitiva e col senno di poi, mi rendo conto che tradurre questo libro è stato come prendere parte a un sontuoso e smodato banchetto. Ho gozzovigliato, fatto bisboccia e sono arrivata alla fine satolla e felice. Mi auguro faccia lo stesso effetto a chi lo ha letto o lo leggerà.

Melissa Broder

Affamata

NN

pp. 240


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Il letto di pietra – NdT

Quando Federica mi ha scritto chiedendomi se avevo voglia di tradurre una raccolta di racconti di Margaret Atwood insieme a lei, la prima cosa che le ho riposto dev’essere stata: Sei pazza? O forse: Sei scema? Il senso, ovviamente, era: Ma figurati se posso azzardarmi a tradurre un’autrice come la Atwood! Ti farei fare una figuraccia. Poi vabbe’, ho accettato.

Devo confessare una cosa: conosco pochissimo Margaret Atwood. Di suo ho letto solo metà del Racconto dell’ancella e un paio di racconti dell’Uovo di Barbablù – a mia discolpa, non sono una grande lettrice né di racconti né di distopie.

Ora, nel mondo ideale – così come nel mondo prospettato da molti corsi di traduzione – prima di mettere mano a un’autrice così importante, sarebbe cosa buona e giusta provare a farci conoscenza, leggendola. Nel mondo reale, ahimè, non si può, per la semplice ragione che non c’è il tempo. E soprattutto perché se ti fermi un mese per leggere e “prepararti”, per quel mese non mangi. Chiusa parentesi.

Viste le premesse, tradurre i racconti del Letto di pietra di Margaret Atwood è stato un vero e proprio salto nel buio.

Ho subito riconosciuto una scrittura eccellente – per un traduttore, di norma, scrittura eccellente significa scrittura compiuta, con una voce riconoscibile, coerente; tutte cose che facilitano di gran lunga il lavoro. Ma anche spinosa: e, nel caso, specifico – perché esistono varie tipologie di scritture spinose – significa essenzialmente una sintassi elaborata, una pioggia di giochi di parole, allusioni e doppi sensi, ma anche – e forse soprattutto – una voce molto witty – brillante, sagace, ammiccante – con tutto quel che comporta.

Tra i quattro racconti che ho tradotto, il mio preferito è indubbiamente La dama nera, il terzo della raccolta. I protagonisti sono due gemelli attempati, per usare un eufemismo, e molto arguti. Il racconto, quindi, è un susseguirsi di battute irriverenti, commenti caustici e doppi e tripli sensi, spesso a sfondo sessuale. E, lo confesso, mentre lo traducevo mi sarebbe piaciuto essere pappa e ciccia con Guè – volendo anche con Marra, quello zarro e greve, però – e potergli chiedere: Senti, ma tu come la tradurresti questa allusione? Giusto per farvi capire, mi è toccato tradurre – in rima! – degli epigrammi di Marziale che dovevano risultare moderni, freschi e anche un po’, come dire, espliciti.

Ho fatto una certa fatica, invece, con Lo sposo liofilizzato, perché ci ho messo un po’ a intonarmi alla voce – tradurre racconti è, forse, più difficile che tradurre romanzi, perché di volta in volta devi quasi ricominciare daccapo. Qui, il protagonista è un tipo un po’ losco che, per mestiere, tratta pezzi d’antiquariato. Solo a pochissimo dalla fine della prima stesura, ho capito in che direzione dovevo andare, e per fortuna, quando ho rivisto, riletto e sistemato, sono riuscita – almeno credo – a restituire l’atmosfera da noir che aleggiava nell’originale.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta, Il letto di pietra, è ambientato su una nave da crociera e c’è di mezzo un delitto. Tra tutti, forse, è stato quello che mi ha fatto penare meno – non so se perché c’erano meno allusioni e ammiccamenti che negli altri.

Anche con l’ultimo racconto, Al rogo i vecchi, mi sono divertita, probabilmente perché anche qui i personaggi principali sono due anziani irriverenti e caustici – Jorrie e Tin, i gemelli, però, sono più scoppiettanti, mentre nella storia di Wilma e Tobias, il tono generale, seppure brillante, è più agrodolce.

Tradurre Margaret Atwood – o perlomeno tradurre questi racconti – non mi ha costretta solo barcamenarmi tra giochi di parole, allusioni, strizzatine d’occhio e citazioni. Quello che mi premeva era, in primis, restituire una sintassi ricca, a tratti perfino barocca, senza però scadere nel lezioso o peggio mi sento nel traduttese, e in secondo luogo, non tradire i molteplici registri dei testi, gongolando quando avevo l’occasione di andare a pescare termini un po’ desueti, vintage.

E, insomma, alla fine anche questa traduzione ce la siamo portata a casa senza troppi danni – almeno credo. Cosa mi resta? La consapevolezza che se l’ho sfangata è anche per merito di Guè, Marra e compagnia – un giorno tutto questo rap ti sarà utile, appunti per un post a venire, chissà – e la certezza che prima o poi mi capiterà di dire, con la stessa enfasi con cui quello diceva: Stavo col Libanese, che ho cofirmato una traduzione con Federica Aceto.

Margaret Atwood

Il letto di pietra

Racconti edizioni

327 pp.


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Revisioni fatte bene

Nei giorni scorsi, ho ricevuto due revisioni. Sarò onesta, anche se ad accompagnarle c’erano mail molto rassicuranti, ho aperto quei file in preda al terrore. Un po’ perché sono ancora traumatizzata da certe esperienze horror del passato e un po’ perché comunque entrambe le revisioni arrivavano da redazioni con le quali non avevo mai lavorato prima, quindi non sapevo bene cosa aspettarmi.

Devo dire, anche se potrà sembrare incredibile, che io ero abbastanza convinta di aver consegnato due traduzioni da decenti a buone. Tra l’altro, com’è mia abitudine, avevo preventivamente spiegato e motivato alcune scelte che immaginavo potessero sembrare azzardate – e di scelte che potevano sembrare azzardate, in quelle due traduzioni, ce n’erano parecchie.

Com’è come non è, entrambe le revisioni erano ottime. Ho trovato tutti gli interventi pertinenti, legittimi, nel senso che non c’erano modifiche random, insensate, di quelle cose buttate lì giusto per dimostrare di aver lavorato – forse questa cosa succede più spesso quando i revisori sono esterni? Infatti ho accettato senza battere ciglio qualcosa come il 95% se non il 98% di quegli interventi. Negli altri casi, com’è mia abitudine, non sono stata lì a difendere a ogni costo le mie scelte originarie – perché gne gne, superata l’età dell’asilo anche no – ma ho proposto una terza via, cercando di conciliare.

Ma quali sono le caratteristiche di una buona revisione? Semplificando, direi che una buona revisione è quella che non si vede. Ovvero, se, quando rileggo le bozze, non mi capita di fermarmi a pensare: Uhm, mi sa che questa cosa non l’ho scritta io, allora è stata fatta una buona revisione. Una revisione che si è sintonizzata sulle frequenze della traduzione, che è scivolata in quella interpretazione, in quella lettura, in quella resa, rispettandola ma anche migliorandola, dove possibile: questa è una buona revisione – per me, ça va sans dire.

Ecco, io sogno che le buone e le ottime revisioni – proprio come le buone o le ottime traduzione – diventino la regola, la norma e non episodi occasionali che facciano venir voglia di essere celebrati aprendo una bottiglia buona.


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Il prontuario della buona revisione

Tradurre è un mestieraccio, rivedere è anche peggio.

Di base, un bravo revisore, dovrebbe rileggere il lavoro del traduttore e intervenire per migliorarlo – perché nessuno è infallibile, tutto è perfettibile e due teste, quattro occhi e quattro mani funzionano meglio di due. Per questo, un bravo revisore dovrebbe conoscere molto bene la lingua di partenza, e ancora meglio l’italiano. E, soprattutto, dovrebbe avere una sensibilità linguistica e letteraria straordinaria. In un mondo ideale, almeno. Purtroppo, però, la realtà è talvolta – non sempre, grazie al cielo – ben diversa.

Questo, infatti, è un racconto dell’orrore.

Premessa doverosa. Io adoro i revisori (bravi). Bacio la terra sulla quale camminano quando beccano un mio errore, quando risolvono una frase che io avevo reso in modo infelice e, in generale, tutte le volte che intervengono per migliorare il mio lavoro. E sono sempre stata convinta che un traduttore impara più di quanto imparerebbe seguendo tremila corsi quando viene rivisto da qualcuno che sa cosa sta facendo. Fine della premessa.

Prontuario di cosa non dovrebbe fare un bravo revisore.

Un bravo revisore non dovrebbe fare interventi superflui, che non migliorano nulla. Per esempio, non dovrebbe cambiare “pastiglie” con “compresse”, “rimanere” con “restare”, “assieme” con “insieme” e simili, così, di default, per sfizio.

Un bravo revisore non dovrebbe fare interventi che rientrano nella sfera del gusto personale, tanto più se vanno nella direzione del piattume, e tolgono anche quel briciolo di colore che, con tanta fatica, il traduttore ha cercato di aggiungere a un testo abbastanza grigio. Per esempio, non dovrebbe cambiare “porta sfiga” in “porta male”, “dare la stura” in “dare libero sfogo”, “fare il piacione” in “fare il simpaticone”, “sul groppone” in “sulle spalle”, e via discorrendo.

Un bravo revisore non dovrebbe cedere all’ossessione per le ripetizioni che, spesso, sfocia in quella che io chiamo sinonimite. Tanto più, se per evitare ripetizioni – che, tecnicamente, neppure sono ripetizioni – genera obbrobri.

Qui occorre qualche esempio.

Risposta alla domanda “Dove abiti?” nel testo consegnato dal traduttore: “Sempre sopra il panificio. È una goduria sentire l’odore del pane appena sfornato“.

Intervento del revisore: “Sempre sopra il forno. È una goduria sentire l’odore del pane appena sfornato” .

Il revisore eccessivamente zelante voleva evitare la pseudo-ripetizione panificio/pane e ha inserito quella forno/sfornato. Perché? Misteri della fede.

O ancora.

Traduttore: “Andate a Vattelappesca? Allora non prendo la macchina, mi faccio dare anch’io un passaggio da X, disse osservando Y e Z che si preparavano per andare in città”.

Revisore: “Andate a Vattelappesca? Allora non prendo la macchina, mi faccio dare anch’io un passaggio da X, disse osservando Y e Z che si preparavano per recarsi in città”.

Qui, per evitare una pseudo-ripetizione, il revisore zelante, è inciampato nell’antilingua di Calvino.

Ah, vi risparmio i “morire” che diventano “perire”, ma siamo sempre in quel campo lì.

Un bravo revisore non dovrebbe inserire termini pescati a caso dal dizionario dei sinonimi e dei contrari. Perciò se trova che “una prospettiva felice” non sia il massimo, prima di cambiare in “prospettiva euforizzante” dovrebbe contare fino a dieci. Ovviamente, poi, il traduttore troverà una terza via, e tirerà fuori dal cilindro “prospettiva allettante”.

Un bravo revisore non dovrebbe mai perdere di vista l’italiano, producendo frasi che puzzano di versione di latino – o di Google Translate.

Se l’originale dice: “haloed by the intensity of love for the baby” e il traduttore ha scritto: “aureolata dall’intensità dell’amore che provava per il figlio”, il revisore non può modificare in: “avvolta da un’aura di luce dettata dall’intensità dell’amore che provava per il figlio”.

Ebbene sì, tradurre è un mestieraccio, rivedere è anche peggio. Ma, di fronte a revisioni del genere, è umanamente impossibile ottenere un buon risultato finale. E, ahimè, sorvolando sulle gastriti e sul fegato scoppiato del malcapitato traduttore, a perderci sono sempre i lettori.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Traduzioni che non sono la mia

C’è una cosa che mi ostino a fare tutte le volte che ne ho l’opportunità, pur sapendo che nella migliore delle ipotesi non ne otterrò niente di buono, e nella peggiore mi scoppierà il fegato. Questa cosa è: recuperare traduzioni in altre lingue – se e quando esistono – dei libri che sto traducendo o che mi accingo a tradurre.

Io stessa mi chiedo: Perché lo fai (disperata ragazza mia)? E mi rispondo: Per sentirmi meno sola. Ho l’impressione, anche se in linea puramente teorica, di spaccarmi la testa in compagnia di qualcun altro, di qualcuno che ci è passato prima di me, che ha affrontato gli stessi problemi, che ha superato le stesse difficoltà.

Ora, non essendo stata benedetta dalla glossolalia, e conoscendo giusto l’inglese, il francese e un po’ di spagnolo, le mie opzioni sono relativamente limitate, così come è limitato il mio ventaglio di esperienze. Ma reputo interessante condividerle, alcune di quelle esperienze.

Ho tradotto poco tempo fa un libro non proprio recentissimo di cui sono riuscita a recuperare sia la traduzione francese che quella spagnola. Era – è – un libro arguto e brillante, infarcito di ammiccamenti e doppi sensi e giochi di parole. Per questo, speravo di trovare nelle traduzioni in altre lingue non tanto delle soluzioni, ma delle suggestioni, dei lampi, degli appigli. Peccato che, sorvolando sui tanti strafalcioni veri e propri – roba da far sembrare quasi accettabili gli orbi di vetro, le bambole di paglia e i pesci sudati – ho subito notato due tendenze: la traduzione spagnola, nella maggior parte dei casi, aggirava i problemi, senza troppi sbatti – ovvero, faceva la parafrasi, provava a restituire il senso per grandi linee, tralasciando allegramente tutto il resto; la traduzione francese, invece, con un approccio per così dire “radicale”, appena sorgeva una difficoltà o un problema, lo eliminava, in senso letterale, segando.

La settimana scorsa, ho cominciato a tradurre un libro bellissimo che è già uscito in spagnolo. E potevo esimermi dal recuperare quella traduzione, pur non nutrendo grandi aspettative? Ovviamente no. In virtù delle scarse aspettative, non l’ho quasi mai aperto quel file, salvo in due o tre occasioni, poche ma sufficienti per convincermi a cestinarlo e, a onor del vero, anche a farmi passare cinque minuti davvero esilaranti.

Vi do un po’ di contesto. La protagonista, a un certo punto, sbrocca male, e spacca il telefono contro il muro. Poco dopo, vede un’amica che l’accompagna a comprarne uno nuovo. Mentre fanno la fila alla cassa, l’amica le dice: “Non capisco a cosa ti serve il telefono fisso” e la protagonista le risponde: “Non è che mi serve, è del padrone di casa, e lo sai com’è che funziona: chi rompe paga”. A quel punto, l’amica, fa: “Euripides Eumenides”. E poi apprendiamo che quell’amica ha studiato Lettere classiche e ci tiene a farlo sapere al mondo intero, anche se ormai si è dimenticata tutto quello che ha imparato all’università.

Bene. Ora, io non ho fatto il classico, ma mi viene subito il dubbio che Le Eumenidi non le abbia scritte Euripide – e infatti le ha scritte Eschilo. Allora penso che sì, ci può stare lo strafalcione, visto che l’amica fa tanto la sborona ma in realtà è una ciuccia. Però poi rifletto: se il senso fosse Le Eumenidi di Euripide ci sarebbe un genitivo sassone (Eupides’ Eumenides, anzi Euripides’ non sarebbe nemmeno in corsivo, ma in tondo), oppure ci sarebbe una virgola (Euripides, Eumenides) come a dire: Euripide, Le Eumenidi, così come si potrebbe dire: Ovidio, L’Eneide, facendo una specie di calderone.

Non volendo perderci le ore, ma ormai quasi rassegnata a chiedere numi all’autrice, in un lampo di lucidità googlo: “Euripides Eumenides” – perché non dimentichiamo che Google, se sai usarlo, ti salva non dico la vita ma le chiappe sì. E becco una barzelletta:

An ancient Greek walks into a tailor’s shop.

The tailor asks him, “Euripides?”

The man replies, “Yeah. Eumenides?”

Vedo la luce e, a quel punto, avendo capito, mi resta solo da inventarmi una soluzione che possa funzionare. Però sono curiosa di scoprire come l’hanno sfangata in spagnolo, così apro il file e vado a guardare.

Ebbene, in spagnolo hanno lasciato: “Euripides Eumenides”. Ora, immaginate di leggere un romanzo, dove due amiche stanno conversando, in italiano, e a un certo punto una dice: “Euripides Eumenides”. Come minimo, rimanete un attimo perplessi, vi domandate cos’è quella frase buttata lì a casaccio, e perché è rimasta in inglese (o in latino, se volete).

Nella traduzione italiana, probabilmente la tipa dirà: “Ma errare umanum est perché è l’unica cosa che mi permette di salvare due elementi irrinunciabili: il riferimento agli studi classici (anche se non si tratta più di greco ma di latino) e l’aggancio, seppure un po’ lasco, all’idea per cui chi rompe paga (e i cocci sono suoi).


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La Morte

Mi accingo a cominciare, dopo la sacrosanta settimana di riposo e oblio tra un libro e l’altro, la traduzione numero 18. Un altro romanzo bellissimo, che ho amato alla follia e che ho inseguito con una caparbietà al limite del patologico. E che mi hanno assegnato a distanza di un anno dal primo contatto, quando ormai non ci speravo – e quasi nemmeno ci pensavo – più.

Stavolta, oltre a essere un romanzo bellissimo – sembra che l’universo, nell’ultimo anno, abbia invertito rotta, mi manda solo cose belle, perciò che dire? grazie universo, continua così, se puoi! – è anche un romanzo che sento nelle mie corde. E, dunque, almeno sulla carta, dovrebbe filare tutto liscio. Ma c’è sempre un ma.

Come molti traduttori – non tutti, ci sono anche quelli sani di mente così come ci sono quelli che soffrono della patologia opposta – ho sempre un po’ di paura: paura, essenzialmente, di essere una cialtrona miracolata, che traduce non perché sa tradurre ma in virtù di una qualche benevola e fortunosa congiuntura astrale.

Senza voler fare la fenomena, razionalmente so che non è così. Cioè, so di saper tradurre decentemente, nel senso che non sono Nostra Signora della traduzione ma neppure una cagna maledetta. Però la mente umana è un meccanismo complesso e anche un po’ burlone.

Durante questa sacrosanta settimana di riposo e oblio, quindi, ho cercato di analizzare il mio rapporto non sempre sanissimo col mio lavoro amato e odiato. E l’ho fatto con l’ausilio di una recente invenzione di una delle mie amiche geniali, ovvero con i Tradocchi di Federica Aceto.

Non vi ammorberò con tutti i dettagli della stesa, ma sta di fatto che dopo un due di spade a simboleggiare il mio approccio teorico alla traduzione e un cavaliere di spade a simboleggiare il mio approccio pratico alla traduzione, è toccato all’obiettivo a cui tendere, ovvero al rapporto che dovrei instaurare con questo lavoro, e sapete quale carta è uscita? Ebbene sì, lei: la Morte.

E la Morte che viene a fare tabula rasa per spazzare via le spade del prima e del durante, in verità, mi sembra un ottimo obiettivo a cui tendere.

Dunque, ho deciso che proverò ad affrontare la traduzione numero 18 con uno spirito più leggero, facendomi meno paranoie se possibile, ricordandomi che sì, il testo di partenza e quello di arrivo sono due cose diverse, a tratti e per certi versi inconciliabili, ma probabilmente basterebbe togliersi quella bendaccia dagli occhi, per vedere le cose da una prospettiva diversa, per stendere quelle due spade in parallelo, sulla spiaggia, osservando anche il panorama: un cielo limpido e un mare calmo; e, se possibile, ricordandomi anche che sì, bisogna armarsi e partire per la battaglia, ma magari con meno foga, senza brandire quella spada con la smania di dimostrare – dimostrare cosa, poi? e a chi? – e cercando anche di frenare quel cavallo, che in fin dei conti, dovrei essere io a tenere le redini e a guidarlo.

Perché la traduzione non è un pranzo di gala, e va bene. Ma non è detto che debba necessariamente una via crucis.


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Professione di fede

Qualche giorno fa, pensavo che la traduzione, a volte, è una professione di fede.

Ci sono momenti in cui il traduttore non capisce, o non è sicuro di capire, o si rende conto di aver capito solo in parte. Ora, per fortuna, checché se ne dica, il traduttore non è mai del tutto solo. E quando brancola nel buio, può chiedere aiuto: ai colleghi, agli amici madrelingua, all’autore. Io, per dire, ho un’abitudine: quando comincio a tradurre un libro, di solito, scrivo all’autore. Mi presento e gli anticipo che quasi sicuramente, di lì a qualche settimana/mese, gli scriverò per sottoporgli dei dubbi. Solo che, incredibile ma vero, non sempre l’autore riesce a chiarirteli, i dubbi. O meglio: ci sono dubbi per i quali l’autore riuscirà a fornirti le risposte, e ce ne sono altri che – ahimè – ti devi smazzare da solo.

Quando capisci di essere di fronte a uno di quei dubbi infami per i quali l’autore non può offrirti soluzioni, quando anche i colleghi e gli amici madrelingua ti rispondono: Boh, non ne ho idea, ecco, è proprio lì che entra in gioco la professione di fede.

Apro una breve parentesi. Dico sempre che per tradurre narrativa occorrono tre cose: conoscere benissimo la la lingua dalla quale traduciamo, conoscere ancora meglio l’italiano, ed essere dotati di una sviluppata sensibilità letteraria. Ed è proprio lei, la sensibilità letteraria, che in molti casi ci salva le chiappette.

Prendiamo questa frase, nella quale mi sono imbattuta in uno degli ultimi libri che ho tradotto e che mi ha tolto il sonno per qualche notte:

The next funeral baked meat treat is not long in coming.

Cosa diamine è, mi sono chiesta, sbattendomi la testa al muro, quel funeral baked meat treat?

Per capirlo, o per lo meno per provare a capirlo, parto dal treat che credo abbia l’accezione di occasione festosa, pur facendo pensare anche a uno sfizio alimentare, tanto più che è preceduto da baked meat.

Assodato – più o meno – questo, mi sposto su baked meat, che leggo in opposizione a fresh meat, e che mi sembra sia più metaforico che altro, perché il banchetto che segue il funerale, di base, non contempla carne arrosto, ma la presenza di gente per così dire attempata.

E poi c’è quel next, che per me non significa imminente, e quindi non si riferisce al banchetto che segue la cerimonia, ma successivo, riferendosi perciò proprio alla cerimonia che inizierà finita quella che si sta svolgendo.

Così, di base, penso di aver capito il senso: in soldoni, significa che manca poco al prossimo funerale, alla prossima cerimonia funebre. Ma per tradurre narrativa non basta capire, in soldoni, il senso. E io non posso fingere che non ci sia quel baked meat là in mezzo.

Se quel meat mi fa pensare a un’accozzaglia di gente, baked mi rimanda al forno, così mi viene in mente la parola infornata, nel senso di immissione contemporanea di un numero notevole di persone in un’ambiente.

Forse ci sono? Qualcuno mi suggerisce anche che possa esserci un rimando alle funeral baked meats dell’Amleto di Shakespeare. E lì mi si accende una lampadina e penso all’Ulisse di Joyce: ogni mortale giorno una nuova infornata, che però in inglese è fresh batch. Sì, forse ci sono.

Tradurre narrativa significa anche accettare che bisogna spesso rinunciare a qualcosa, che bisogna decidere cosa si è disposti a perdere e cosa occorre salvare a tutti i costi, che bisogna negoziare. E in questo caso, io ho deciso di salvare il senso, che è il minimo sindacale, e di aggrapparmi a un riferimento letterario, anche se è un riferimento letterario diverso – e posso permetterlo perché qui, il riferimento letterario ha una funzione puramente “ornamentale”, è una strizzatina d’occhi, un ammiccamento – e ho tradotto così: Manca poco alla prossima infornata funebre.

Come sempre non è l’unica traduzione possibile o lecita, e come sempre è probabile che non sia la soluzione migliore. Ma tradurre è scendere a compromessi, e fare ogni tanto una professione di fede.


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Ci vuole orecchio

Il traduttore non è solo il fratello figlio unico di Rino Gaetano, è un po’ anche il Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore di De Gregori.

Mi spiego – o almeno ci provo, e preciso che non è un caso di excusatio non petita.

Errare è umano e chi è senza peccato (o immune dall’errore) scagli la prima pietra. Ergo: anche al traduttore più esperto, attento, talentuoso può capitare di prendere un abbaglio.

Ma, parafrasando, non è dagli abbagli che si giudica un traduttore.

La traduzione è un lungo viaggio, quasi una maratona. E il traduttore, che non è un automa, certi giorni è più ispirato, altri è stanco, perciò magari gli può capitare di leggere arm (braccio) e scrivere arma, oppure di leggere radis (ravanello) e scrivere radicchio. Forse si accorgerà di aver preso un granchio un attimo prima di consegnare. O magari se ne accorgerà il revisore. Oppure sfuggirà a tutti e il libro andrà in stampa con un erroraccio. Sarebbe meglio se non succedesse, ovvio, ma se succede non muore nessuno.

Gli errori, però, non sono tutti uguali.

Ce ne sono alcuni che non sono il frutto della distrazione e della stanchezza ma della cialtronaggine e della sciatteria.

Forse adesso dovrei aprire una parentesi e spiegare brevemente cosa intendo per cialtronaggine e sciatteria.

Dunque, per come la vedo io, cialtronaggine significa credersela tanto da non prendersi la briga di aprire un dizionario, di fare ricerche, di approfondire, trasformando dei banalissimi pezzi di carbone umidi in pesci madidi di sudore – i pesci sudano? E sciatteria vuol dire non darsi la pena di rileggersi, infarcendo il testo di calchi su calchi su calchi su calchi – l’ho già scritto, calchi? La cialtronaggine e la sciatteria ci regalano perle che sulle prime ci fanno ridere, poi ci fanno venire voglia di strapparci i capelli.

D’altro canto, gli errori, anche quelli che sono frutto della cialtronaggine e della sciatteria, sono – almeno sulla carta – facili da beccare e correggere in fase di revisione – il fatto che spesso, ahinoi, nessuno li becchi e li corregga e vadano in stampa è un’altra storia.

C’è poi un altro tipo di errore, che in realtà è qualcosa di più di un errore, e che non è così facile da correggere in fase di revisione, ed è quello che chiamo stonatura.

Una traduzione stonata è quella che non è riuscita a cogliere e a riprodurre la voce del testo originale.

Ora, per come la vedo e l’ho sempre vista io, questo è il discrimine tra una buona traduzione e una cattiva traduzione. E chi traduce narrativa deve avere orecchio. Oppure è un pianto.

Ci vuole orecchio per individuare tutta una serie di caratteristiche stilistiche: non solo il registro ma anche il flow e l’intenzione, per esempio. Così come ci vuole orecchio per azzeccare le scelte in traduzione: ci sono momenti, per esempio, in cui è necessario cassare qualcosa per non spezzare il ritmo o aggiungere qualcos’altro per arrotondare e chiudere quello che diversamente rimarrebbe sospeso e monco.

Perché va bene, tradurre sarà anche dire quasi la stessa cosa, ma è soprattutto dirla quasi nello stesso modo.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Loop

Ogni volta che finisco di tradurre un libro, durante l’ultimissima rilettura, quella dei tocchi finali, penso stupita: Dai, pensavo peggio. Si legge bene. Scorre, a tratti è perfino brillante. Funziona.

Di solito, dopo quel momento di stupore, mi fermo a pensare, faccio mente locale e mi dico: Cosa ci sarà mai di strano, poi? In fondo, è il tuo lavoro. Ed è vero ma ci sono diversi ma.

Il primo ma è che io nasco francesista, divento francesista prestata all’inglese, e mi trasformo – in principio, mio malgrado; oggi con una certa soddisfazione – in anglista.

Il secondo ma è che ho ricominciato a tradurre narrativa relativamente da poco, dopo una pausa lunghissima, di anni, e se è vero che tradurre è come andare in bicicletta, quando non pedali da un po’, le prime volte che torni in sella fai fatica.

Il terzo ma è che ogni libro è, per forza di cose, una storia a sé, e se con alcuni ti senti fin da subito in sintonia, con altri invece percepisci una distanza siderale, e non è facile – e nemmeno rapido, almeno per me, e men che meno indolore – trovare la quadra, sgombrare la testa dai preconcetti, da preferenze e idiosincrasie puramente soggettive, e intonarsi a quella nuova voce che non solo non è la tua – prima o poi ci riuscirò a scrivere un post intitolato Voci che non sono la mia – ma non ci si avvicina neppure lontanamente.

In questi casi, nel caso dei libri con i quali percepiamo una distanza siderale, il processo somiglia molto all’inferno o al diavolo o alla morte – sì, mi sono intrippata coi tarocchi, per colpa di un’amica.

E c’è di più, ed è un pericolo subdolo che può avere conseguenze devastanti. Se io, poniamo il caso, mi sentissi particolarmente in sintonia con un certo tipo di scrittura, diciamo lineare, scarna, quasi minimalista, e mi trovassi a tradurre un libro con uno stile agli antipodi, diciamo baroccheggiante e ammiccante al limite del lezioso, non rischierei di fiutarci più baroccheggiamenti e ammiccamenti e leziosaggini di quante non ce ne siano in realtà, calcando troppo la mano, e compiendo uno scempio? Risposta: forse sì.

Ecco, è un po’ quello che mi è successo con l’ultimo libro che ho tradotto. Ho fatto una fatica enorme, come non mi capitava da tempo, a entrarci dentro, a riconoscerne il tono e l’intenzione, a capire in quale direzione dovevo muovermi, in quale registro dovevo andare a pescare parole ed espressioni. E mi chiedevo di continuo: starà esagerando davvero qui oppure sono io che ci vedo esagerazioni dove non ce ne sono?

In quei momenti, in quelle fasi, non c’è lucidità che tenga. O almeno, io non sono abbastanza razionale e assennata da dirmi: Dai, tranquilla, che in qualche modo, pure stavolta la porti a casa. No, io entro in un loop fatto di: Sono una capra, devo andare a zappare, ma perché ho accettato, oddio penseranno che faccio schifo e non lavorerò mai più. Probabilmente perché quando distribuivano il buonsenso e l’equilibrio, io ero assente.

E, invece, come dicevo all’inizio, durante l’ultimissima rilettura, mi è parso che funzionasse, mi è parso di essere riuscita non solo a dire quasi la stessa cosa, ma dirla anche quasi allo stesso modo – che è un dettaglio non proprio trascurabile, se traduciamo narrativa.

Ovviamente questa parentesi di beatitudine è di brevissima durata, perché una volta spedito il file, comincia un altro loop deleterio e snervante, fatto di: Oddio è se invece la traduzione è disastrosa, la revisione sarà una tragedia, penseranno che sono un’incapace e non lavorerò mai più.

Per fortuna, dopo la sacrosanta settimana di riposo e oblio tra un libro e l’altro, comincio a tradurre un romanzo con il quale mi sento del tutto in sintonia – ovviamente, questo lo dico ora; appena comincerò a lavorare partirà l’ennesimo loop. Forse, la vita – la mia vita, o almeno la mia vita lavorativa – è un pendolo destinato a oscillare in eterno tra sono una capra e devo andare a zappare.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.