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Una questione di affinità

Una cosa che ho sempre cercato di fare, fin dagli albori – perché mi piace e perché è utile, o per lo meno lo è per me – è leggere libri affini a quello che sto traducendo.

Qualcuno dirà: Ma non ti annoi? Be’, no. Anche perché, non prendiamoci in giro, finché non consegni, dal libro non esci, non hai scampo. Parlo per me: di certo non lavoro 24 ore al giorno, ma anche quando non lavoro, in un certo senso, cervello e inconscio lavorano per me – ogni tanto, anche nel sonno, ahimè. Nel corso della giornata, capita che quella parola, quell’espressione, quel riferimento culturale passino a farmi un saluto veloce, come a dire: Oh, ti ricordi che abbiamo un conto in sospeso? E perfino nei momenti in cui credo di essere totalmente altrove, mi accorgo di essere ancora dentro al libro – mentre sono in fila alla cassa del supermercato o mentre sto guardando una serie oppure mentre sto spettegolando al telefono con un’amica, di colpo arriva una suggestione che può sollevare un dubbio o risolvere un problema.

Appurato che, come dicevo, il libro che stai traducendo non ti lascia scampo, mi dico: Fatto trenta, faccio trentuno. Ed ecco perché cerco di leggere libri affini.

Cosa intendo per libri affini? Libri che condividono temi, stile, ambientazione o anche semplicemente quello che definirei mood – un mix di atmosfere, sguardo, intenzione.

Mi piace, dicevo. E lo trovo utile, aggiungevo. Perché è una cosa che mi aiuta non solo a rimanere immersa nel libro in maniera consapevole e a non perdere il focus, ma soprattutto mi confina all’interno di un mondo – o di una galassia – che ha una sua coerenza. E la coerenza, quando si traduce narrativa, è o dovrebbe essere un faro.

Ecco perché nei prossimi mesi vorrei leggere romanzi di giovani autrici ebreo-americane, romanzi ambientati nel sottobosco dell’industria del cinema hollywoodiano, ma anche – e soprattutto – romanzi che parlano di rapporto col corpo, col cibo, col sesso e anche di mummy issues. (A tale proposito, ogni suggerimento è bene accetto.)


ISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è

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Nuovo libro, nuovo metodo

Nei giorni scorsi ho blandamente cominciato a tradurre il nuovo romanzo, quello che – se tutto va bene – mi traghetterà sana e salva alla primavera – blandamente perché i tempi sono comodi e perché se rigore è quando arbitro fischia, nuovo lavoro è quando traduttore firma contratto, e io non ho ancora firmato, ma è giusto una questione di dettagli e scaramanzia.

Comunque, pure se blandamente ho cominciato, e mi sono immediatamente resa conto che negli ultimi tempi la mia metodologia di lavoro si è del tutto sbriciolata. O meglio è diventata molto più duttile e cambia, di volta in volta, adattandosi al libro – e un po’ anche alle mie necessità del momento.

Ovviamente ho già il mio schemino pronto. So quante pagine al giorno/alla settimana/al mese devo fare per non bucare la consegna, pur tenendomi un margine di sicurezza nel caso in cui dovessi pescare la temibile carta imprevisti in questo infido gioco chiamato vita. E anche a questo giro, come faccio ormai da due o tre libri a questa parte, non comincerò a rileggere dopo aver finito la prima stesura, perché è una cosa che mi manda (mandava) al manicomio. Ma farò dei continui andirivieni: traduco qualche capitolo, torno indietro e rivedo e sistemo, poi traduco qualche altro capitolo e di nuovo indietro a rivedere e sistemare. Di modo da arrivare alla fine senza rischiare di trovarmi tra le mani un blob informe e spaventoso, ma un testo da rifinire e limare. Come dicevo, è un metodo che ho già testato e che ha funzionato assai bene. Quindi, a posto.

La vera novità è un’altra, e cioè che ho deciso di leggere il libro per intero – prima. Cosa che non faccio mai, come molti colleghi, perché di base non ne sento il bisogno. Di norma, mi limito a leggere le prime 30-40 pagine, per tentare di entrare in sintonia con la voce, capire quali sono i problemi e le difficoltà e iniziare a elaborare le strategie per risolverli. In teoria avrei dovuto procedere così anche questa volta ma – udite udite! – dopo quelle 30-40 pagine non ho pensato: Madò che gran due palle, basta! bensì: Uh, mi piace, voglio andare avanti! Grazie, universo.

Sono curiosa di scoprire se questo metodo mi faciliterà il lavoro in prima stesura – pur essendo ragionevolmente convinta che, come ogni volta, sarà un massacro e uno scempio. Tanto più che, andando avanti nella lettura, mi sono ripetutamente imbattuta nei problemi e nelle difficoltà che avevo già individuato nelle prime 30-40 pagine, senza ulteriori sorprese.


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Arancine e arancini

Nei giorni scorsi ho letto un libro che forse tradurrò o forse no (aspetto una risposta e i tempi dell’editoria sono spesso lenti, soprattutto per gente che, come me, non ha ricevuto il dono della pazienza nella culla) e a un certo punto ho pensato: Oh no, qua dovrò fare delle concessioni!

C’è un momento in cui, out of the blue, una tipa started making arancini.

Ora, presumo che tutti siate al corrente dell’annosa quanto futile – poi spiegherò perché è futile – diatriba arancini vs. arancine. In sintesi, a Palermo le chiamiamo arancine, mentre a Catania le chiamano arancini. E per ragioni inspiegabili, nel resto d’Italia ha preso piede la variante catanese, nel senso che ha vinto il maschile.

Anche l’Accademia della Crusca si è espressa sulla questione. Ma, come anticipavo, per me è una diatriba futile che non avrebbe nemmeno ragione di esistere, per il semplice fatto che l’arancina e l’arancino sono due cose diverse. Non solo per la forma – tonda l’arancina, a punta l’arancino – ma, cosa più importante, perché sono diversi gli ingredienti. Per dire, dentro l’arancina (femmina) ci troverete macinato e piselli; dentro l’arancino (maschio) ragù a pezzi e formaggio filante. Ma vabbè. Sono sottigliezze più campanilistiche che culinarie.

In ogni caso, resta il problema di cosa scrivere in traduzione: arancine o arancini? E dopo aver verificato, spulciando ricette online, che in UK non fanno né arancine né arancini ma delle robe che solo al pensiero mi si spappola il fegato, sono giunta alla conclusione che, pur se con la morte nel cuore, scriverei arancini, al maschile. Perché sebbene entrambe le varianti siano riportate dai dizionari, una è dominante, mentre l’altra tradisce le mie origini – oltre che le mie fisime, portandosi appresso un pesantissimo residuo biografico. E il traduttore, si sa, dev’essere invisibile, o per lo meno, deve provarci – l’invisibilità non esiste, è una leggenda metropolitana, ma è un discorso troppo lungo, e non è questa la sede né il momento di affrontarlo.


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Proposte di traduzione

Nonostante tutto, tradurre mi piace. Certo, un po’ dipende anche dai libri. Potendo scegliere, eviterei quelli dove i personaggi alzano quattrocento volte gli occhi al cielo. E forse è anche per questo che, quando posso, cerco di fare un po’ di scouting.

Cosa significa, in soldoni, fare scouting? Significa cercare dei buoni libri non ancora tradotti/pubblicati in italiano e segnalarli/proporli agli editori.

Ecco, fare scouting mi piace molto. Ma, lasciatemelo dire, è una faticaccia e, come se non bastasse, questa faticaccia spesso non sfocia in nulla di concreto.

Per intenderci, se firmo un contratto per tradurre una ciofeca di quattrocento pagine, passerò mesi a sbattermi la testa al muro, chiedendomi chi me lo ha fatto fare, ma alla fine arriverà un bonifico. Perché, diciamolo forte e chiaro, è lavoro, quindi, alla fine della fiera, quello che conta è che ci paghi le bollette e ci fai la spesa.

Se invece passo settimane a setacciare, leggere, scartare finché non trovo qualcosa di valido, e poi passo altre settimane a buttare giù una scheda, a tradurre delle pagine, a selezionare editori potenzialmente adatti, a mandare mail, non è detto che succeda qualcosa. In termini puramente numerici, infatti, è abbastanza raro che una proposta di traduzione vada a buon fine e si trasformi in un contratto.

In realtà bisognerebbe fare una distinzione tra lo scouting su commissione e le proposte di traduzione spontanee.

Nel primo caso, quello dello scouting su commissione, è l’editore che ti dice: Sto cercando qualcosa così e cosà, hai dei titoli da segnalarmi? Nel secondo caso, quello delle proposte di traduzioni spontanee, è tutto più complicato.

Di base, ci sono due strade. La prima è, per così dire, più dritta. Esempio: muoio dalla voglia di lavorare con editore X, quindi adesso mi metto a cercare qualcosa che potrebbe fare al caso suo – e poi incrocio le dita. La seconda, invece, è decisamente più tortuosa: Esempio: leggo un po’ di roba che mi ispira, e appena trovo qualcosa di bello, cerco di capire a chi proporlo.

Ora, sorvolando su tutti gli impicci che ci sono a monte, come dicevo, questa strada è un po’ tortuosa perché non è detto che, alla fine, si trovi qualcuno a cui proporre quel bel libro.

Ed è quello che spesso succede a me. Metto gli occhi su romanzi che mi sembrano interessanti, li leggo, se mi piacciono mi assicuro che i diritti di traduzione siano liberi, poi preparo una scheda, traduco un po’ di pagine e a quel punto, in certi casi, il nulla cosmico, nel senso che non mi viene in mente nemmeno un editore potenzialmente adatto, e mi parte di default l’ambarabà ciccì coccò questo libro a chi lo do?

Sul mio computer, ho una cartella che si chiama “scartati”. Lì ci sono dei libri bellissimi ai quali non sono riuscita, nonostante l’impegno e gli sforzi, a trovare un editore. Su alcuni, ci ho messo una croce sopra. Su altri, invece, ci spero ancora. Su uno in particolare: il romanzo più pazzesco che ho letto negli ultimi anni, del tutto inadatto al mercato italiano, che è anche piaciuto a qualche editor che però mi ha detto, senza troppi giri di parole, che è too much, venderebbe al massimo tre copie. E ci sta, ci mancherebbe.

E quindi? Il succo è che si è creato una specie di alone mistico attorno alle proposte di traduzione, negli anni. Come fossero un passe-partout che apre tutte le porte. E certo, ci si fa notare di più proponendo un bel libro che mandando un cv. Ma, come spesso accade, la realtà è un po’ più complessa di come ce la raccontano.


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Una questione di adattamento

Ieri ho finito di tradurre un libro bellissimo, che ho inseguito con cocciutaggine e ho ottenuto in maniera un po’ rocambolesca.

Mentre ci lavoravo, non ho scritto niente, neppure un post. Probabilmente perché questo romanzo non mi ha costretta a farmi domande sui massimi sistemi traduttivi. Stavolta la vera difficoltà era restituire la semplicità di una lingua molto misurata, quasi dimessa, ma precisa, affilata, a tratti fredda ma che, al tempo stesso, colpisce e affonda. Una lingua che, quando ho letto il romanzo, molto prima di sapere che avrei voluto tradurlo e che lo avrei tradotto, mi aveva fatto pensare a Maylis de Kerangal.

Per me, che sguazzo in registri totalmente diversi, è stata una sfida interessante. Ho dovuto avvicinarmi a un grado quasi zero della scrittura, asciugare, lavorare di sottrazione.

Perché tradurre narrativa significa, prima di tutto, adattarsi, in maniera quasi camaleontica. Significa cogliere le voci e tentare di riprodurle, di restituirle – le voci, la voce, mi toccherà scrivere qualcosa prima o poi sull’argomento, che è il cuore di tutta la faccenda. Significa grattare, fino a trovare registri che nemmeno sapevamo di avere e che magari non avevamo, ma che pian piano, tentativo dopo tentativo, ci costruiamo e, fosse anche per lo spazio di un libro, facciamo nostri.


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A carte scoperte

Nei giorni scorsi, ho cominciato una nuova traduzione. Un bel romanzo d’esordio, francese, che ho inseguito fino ad accaparrarmelo. E mi è successa una cosa che ho sempre desiderato, ma che mai, nemmeno nei miei sogni più sfrenati, avrei pensato si sarebbe realizzata, ovvero: quando dalla casa editrice mi hanno chiamata per affidarmi il libro, abbiamo discusso nel dettaglio la mia prova, gettando così le basi per il lavoro a venire.

Pensateci, è una cosa sensata – oltre che molto utile. Ogni traduttore, così come ogni revisore, ha pregi, difetti, preferenze, idiosincrasie e perfino fisime. E giocare a carte scoperte fin dall’inizio, per come la vedo io, facilita il lavoro a tutti.

Aver vivisezionato, insieme alla persona che si occuperà della revisione, le prime dieci-quindici pagine del romanzo, mi permette di muovermi con una certa consapevolezza. Per esempio, di fronte a dei passaggi “problematici”, riesco già a intuire quali potrebbero essere le perplessità dall’altra parte, di fronte a certe mie scelte, perciò o correggo il tiro, o spiego a monte qual è stato il ragionamento che mi ha portata a scrivere una cosa piuttosto che un’altra.

Ripeto: io procedo più spedita e presumo che, allo stesso modo, procederà più spedito il revisore. E più si procede spediti, più il risultato finale sarà riuscito.

Come dicevo all’inizio, ho sempre desiderato di fare una cosa del genere, ma non mi era mai capitato prima. E non solo perché purtroppo i tempi dell’editoria sono frenetici, perché si lavora sempre sul filo del rasoio, in una perenne corsa contro il tempo – con tutto ciò che comporta in termini di qualità – ma anche e soprattutto perché raramente quando si assegna una traduzione si sa chi la rivedrà.

Ma chissà, forse un’altra editoria è possibile.


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Limare, limare e ancora limare

Tradurre è anche – soprattutto? – rileggersi e limare, limare e ancora limare, alla ricerca di un ritmo, di un flusso.

Per ottenere quel ritmo, quel flusso, certe volte bisogna scendere a compromessi e sacrificare qualcosa, ma la traduzione è un continuo esercizio di equilibrio, un perenne gioco di pesi e contrappesi.

Volevo fare qualche esempio concreto, confrontando la prima stesura e quella finale, dopo quel lavoro – lavorio? – di limatura di cui dicevo prima.

Prima stesura: Aveva il cuore malandato, gli affari non erano mai andati peggio, era sull’orlo di un esaurimento nervoso.

Stesura finale: Aveva il cuore malconcio, gli affari non erano mai andati peggio, era sull’orlo di un esaurimento nervoso.

Malandato mi piace molto di più di malmesso, ma sono costretta a cambiarlo per evitare la ripetizione con andati.

Prima stesura: A volte, quando non aveva voglia di leggere, si metteva alla finestra a guardare la neve. Nelle serate ventose, si precipitava giù dalle montagne avvolte dalle tenebre, volteggiava nel bagliore bianco-azzurro del diner e nel riflesso rosa dell’insegna al neon, per poi scomparire tra i boschi, nel buio, dall’altra parte della strada. 

Stesura finale: Di tanto in tanto, quando non aveva voglia di leggere, si metteva alla finestra a guardare la neve. Nelle serate ventose, si precipitava giù dalle montagne avvolte dalle tenebre, turbinava nel bagliore bianco-azzurro del diner e nel riflesso rosa dell’insegna al neon, per poi scomparire tra i boschi, nel buio, dall’altra parte della strada. 

Anche qui, per evitare delle assonanze che suonerebbero male e forse perfino malissimo, devo intervenire: decido quale delle tre parole problematiche voglio assolutamente mantenere/salvare (avvolte) e poi valuto le opzioni (posso trasformare a volte in di tanto in tanto e volteggiava in turbinava? direi di sì).

Prima stesura: Si sedeva con atteggiamento solenne e meditabondo, poi si toglieva il cappello, lo poggiava sul bancone e infine, con garbo, chiedeva un caffè. Aveva i baffi imperlati di ghiaccio. Henry gli serviva il caffè e una fetta di torta di mele e rimaneva dietro al bancone mentre l’uomo beveva il caffè corretto col whisky. A volte, dopo che Kuzitski aveva mandato giù il secondo caffè, Henry si metteva a parlare del suo cuore.

Stesura finale: Si sedeva con atteggiamento solenne e meditabondo, poi si toglieva il cappello, lo poggiava sul bancone e infine, con garbo, chiedeva un caffè. Aveva i baffi imperlati di ghiaccio. Henry gli serviva anche una fetta di torta di mele e rimaneva dietro al bancone mentre l’uomo beveva il caffè corretto col whisky. A volte, dopo che Kuzitski aveva mandato giù la seconda tazza, Henry si metteva a parlare del suo cuore.

Qua ci sono banalmente troppi caffè – in inglese non dà fastidio, in italiano sì. Perciò bisogna capire come aggirare l’ostacolo. Per esempio, se scrivo gli serviva anche una fetta di torta, presumo si capisca che gli serve la fetta di torta e il caffè. Allo stesso modo, poco dopo, posso scrivere che manda giù la seconda tazza, tanto lo sappiamo cosa sta bevendo.

Prima stesura: La gente commentava quella vena di violenza che balenava in Henry Soames (pur compatendolo, aveva qualcosa di inquietante) osservando che, col senno di poi, non era venuta fuori dal nulla.

Stesura finale: La gente commentava quella vena di violenza che balenava in Henry Soames (pur compatendolo, aveva qualcosa di inquietante) osservando che, col senno di poi, c’erano già state delle avvisaglie.

Qui la questione è un po’ diversa, non si tratta di ripetizioni o di assonanze, ma di naturalezza. Nel primo caso, la traduzione è molto letterale, ma non funziona, nessuno scriverebbe una cosa del genere in italiano. Inizialmente avevo pensato a qualcosa tipo: non era un fulmine a ciel sereno, ma mi sembrava troppo carica e idiomatica in quel contesto, tanto più che l’inglese è assolutamente piano, per cui ho optato per c’erano già state delle avvisaglie.

Certo, è un lavoro lungo, a tratti anche noioso e perfino frustrante, ma è necessario, soprattutto su un testo come questo, che non pone chissà quali difficoltà né in termini di comprensione né di resa linguistica. Ed è un lavoro che può fare la differenza perché il confine tra un testo pulito, semplice e un testo scialbo, sciatto è molto sottile.


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Una ricerca in più, una figuraccia in meno

Ieri, rileggendo per l’ennesima volta la traduzione del primo capitolo del romanzo di cui parlavo qui, ho avuto un attimo di smarrimento.

A un certo punto, c’è questa descrizione abbastanza dettagliata della copertina di un disco, dove si accenna a una gioielleria abandoned. Io, in prima battuta, avevo molto banalmente tradotto abandoned con abbandonata. Traduzione che, di base, non è sbagliata.

Peccato che sia sbagliata qui. Ma andiamo per gradi.

E, abbiate pazienza, mi tocca aprire una parentesi. Io sono una persona piuttosto pignola (ciao, ascendente vergine) e quando traduco tendo a fare una quantità di ricerche spropositata. Cosa che, va detto, alle volte mi fa solo perdere tempo ma altre mi salva dal prendere granchi clamorosi. Come nel caso del cordial che non era un cordiale ma uno sciroppo, e come in questo caso.

Dunque, la copertina in questione è quella di un disco dei Beach Boys, SMiLe – disco che peraltro ha una storia interessante, se volete approfondire c’è Wikipedia. Già la descrizione mi aveva messo una pulce nell’orecchio, ma quando ho visto coi miei occhi questa benedetta copertina, mi sono resa conto che la gioielleria era tutto meno che abbandonata.

Dunque a questo punto, c’è solo una cosa da fare, scoprire se abandoned ha altri significati. E come si scopre? Semplicemente consultando un dizionario (di preferenza monolingue).

E in due secondi netti, il Merriam Webster ci informa che, uno dei significati di abandoned è: “wholly free from restraint” – ci sta anche che a quel punto ti dai dell’idiota, perché ci potevi arrivare da sola, ma vabbè.

In un caso come questo – caso più frequente di quanto si possa pensare, tra l’altro – può succedere una cosa molto sgradevole, ovvero che il traduttore nella fretta non noti quella leggera stonatura (io, per dire, non me ne sarei accorta se avessi riletto una volta di meno) e che non la noti nemmeno il revisore. Nel 99% dei casi, vi garantisco che non la noteranno nemmeno i lettori, a meno che il libro non finisca nelle mani di un fine conoscitore dei Beach Boys che, pensando alla copertina di SMiLE, si dirà – e giustamente -: “Che peracottari il traduttore, il revisore e l’editore”.

Ecco perché, per quanto sia antieconomico – mi scusino i romantici, ma io con le traduzioni ci pago le bollette e ci faccio la spesa – io preferisco sempre fare una ricerca e un approfondimento in più. Perché è vero che tutti siamo fallibili – e io più di tanti altri – ma mi roderebbe oltremodo inciampare in un errore marchiano solo per pigrizia, pressappochismo e sciatteria. In certi casi, una ricerca in più (ci) salva la faccia.


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Tradurre il linguaggio inclusivo

In questi giorni mi sto dilettando a tradurre il primo capitolo di un romanzo che alla fine nemmeno proporrò – molto poco italiano, lo definirebbe Stanis La Rochelle.

Mi sto divertendo come non mi capitava da tempo. Un po’ perché in questo romanzo c’è tutto quello che mi piace(rebbe) tradurre – è scritto alla prima persona e al presente (e io nutro un odio viscerale e in parte irrazionale per il passato remoto), è pieno di dialoghi, i personaggi parlano la lingua della strada (e per una che, come me, è cresciuta a pane e rap americano e italiano è una manna dal cielo), ci sono tantissimi riferimenti al calcio (e quindi posso mettere a frutto molte delle cose che ho imparato in oltre vent’anni di curva) e alla cultura pop in senso lato – e un po’ perché mi sta permettendo di riflettere, non in teoria ma mettendo le mani in pasta, su un problema sul quale mi pongo molte domande ormai da tempo, ovvero: come tradurre il linguaggio inclusivo.

Che la traduzione del linguaggio inclusivo potesse diventare un problema – o almeno un argomento su cui riflettere – l’ho capito qualche mese fa quando, dopo aver letto il romanzo di un’esordiente francese, sono arrivata ai ringraziamenti e lì, nei ringraziamenti – ma non nel romanzo – si usava il linguaggio inclusivo. In un caso del genere, il ragionamento è abbastanza lineare: se si usa nell’originale bisogna usarlo anche nella traduzione. Infatti i miei dubbi erano di ordine puramente pratico e, per certi versi, morfologico. Per esempio, se compagnə per compagni e compagne non mi pone alcun problema, la situazione si complica (almeno per me) con altre parole; già mi disturba professorə per professore e professoressa, ma ho un rifiuto per scrittorə per scrittore e scrittrice, per dire. E se soluzioni provvisorie, più o meno valide, vanno bene per un articolo su un blog o per un pezzo su una rivista online, quando si tratta di un romanzo, si procede in maniera un po’ più cauta – a me, per esempio, piacerebbe che la comunità dei linguisti stabilisse delle norme d’uso ragionate alle quali rivolgersi in caso si dubbi. Chiusa parentesi.

Anche il romanzo di cui sto traducendo il primo capitolo per diletto usa il linguaggio inclusivo. Non nei ringraziamenti, ma all’interno del romanzo. E lo fa in un modo che definirei moderatamente marcato, ovvero ricorrendo al pronome they per i personaggi – tanti – non binari.

Paradossalmente, l’uso del pronome they non pone grossissimi problemi perché in italiano, diversamente che in inglese, abbiamo la fortuna di poter sottintendere il soggetto. Ma quel pronome they scatena un effetto a catena o a valanga, se così posso dire.

L’italiano è una lingua flessiva, molto flessiva, e il genere non ha impatto soltanto sui pronomi ma anche sui sostantivi, sugli aggettivi e sui participi passati.

Qual è il problema concreto? Che se nel testo si ricorre al pronome they per non genderizzare (mi consentite questo brutto neologismo?) alcuni personaggi, in traduzione io devo assolutamente evitare di usare sostantivi, aggettivi e/o participi che mandino tutto all’aria.

Faccio qualche esempio.

Cal starts running towards us. When they get here, they pull a red card out of their back pocket.

In questo caso, fila tutto liscio: Cal si mette a correre verso di noi. Quando ci raggiunge, estrae un cartellino rosso dalla tasca posteriore.

Già qua le cose si complicano.

Cal and I just split, in different directions. We both know that this wasn’t a draw, and it certainly isn’t over.

Si complicano perché, per dire, non posso usare entrambi (maschile) per both, ma devo optare per un termine invariabile, per esempio ambedue o tutt’e due (giocandomi la furbata dell’apostrofo).

E ancora.

Cal is a blond.

Facile: Cal non è né biondo, né bionda né biondə; semplicemente, Cal ha i capelli biondi.

E in questo caso?

Cal is my bestie.

Di certo non Carl è lə miə migliorə amicə. Magari io e Cal siamo BFF.

La sfida, di base, è quella di usare il linguaggio inclusivo quando necessario senza ricorrere allo schwa. E non per questioni ideologiche o simili, ma perché risulterebbe una forzatura sia in termini quantitativi (in italiano ci sarebbero moltissimi più ə che they) che qualitativi (rischio altissimo di illeggibilità).


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Cordiali e cordials

Tradurre significa, tra le altre cose, non cadere nei tranelli – che sono ovunque.

Ecco quindi un esempio di tranello nel quale ho rischiato di cadere, peraltro con tutte le scarpe.

L’infame è il termine cordial.

Contesto: c’è un bambino di circa sette-otto anni che partecipa agli aperitivi danzanti organizzati dai genitori e si bea nel vedere come si divertono, mentre sorseggia un lukewarm lime cordial. Mia reazione, peraltro un po’ troppo giudicante: Irresponsabili che fate bere alcol a un bambino di quell’età. Peccato che quel cordial non corrisponda al nostro cordiale e non sia una bevanda alcolica.

Alla voce cordial, il Merriam Webster rimanda al lemma liqueur che viene definito: a usually sweetened alcoholic liquor (such as brandy) flavored with fruit, spices, nuts, herbs, or seeds. Ma il Cambridge fa una precisazione, e sempre alla voce cordial, rimanda pure lui al lemma liqueur per l’uso americano, dando invece un’altra definizione per l’uso britannico: a sweet drink made from fruit, to which water is usually added; lime cordial.

Cerchiamo quindi di capire cos’è esattamente questo lime cordial: a non-alcoholic drink, made by mixing concentrated lime juice and sugar with water. Ottimo.

Ora, siccome Wikipedia non è la bibbia, vediamo di trovare conferme. Spulcio qualche ricetta – che non contempla l’uso di alcol – e poi trovo un articolo significativamente intitolato Cordiali e cordials: quella lettera che fa la differenza.

Insomma, il bambino non rischia di sprofondare in un alcolismo precoce per colpa dei genitori irresponsabili; sta semplicemente sorseggiando uno sciroppo al lime.

Mi viene da dire solo: Grazie mamma che mi hai fatto troppo giudicante, visto che questa cosa, spesso, mi salva dal prendere granchi grossi così.


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