Categorie
traduzione

Catching Fire, il “miracolo” della traduzione

Qualche giorno fa ho letto Catching Fire: A Translation Diary di Daniel Hahn. Come recita il sottotitolo, è un diario di traduzione ed è il libro più brillante, onesto e “crudo” che abbia mai letto sull’argomento. Zero fuffa, zero supercazzole, zero elucubrazioni teoriche sui massimi sistemi, ma tanta vita vera – insomma, proprio quello che piace a me.

Daniel Hahn, che traduce narrativa dallo spagnolo, dal portoghese e dal francese, ha raccontato in presa diretta i mesi trascorsi in compagnia di Jamás el Fuego Nunca, romanzo della scrittrice cilena Diamela Eltit (pubblicato in Italia da gran vía, nella traduzione di Raul Schenardi, con il titolo Mai e poi mai il fuoco). Messa così, non sembra un’operazione particolarmente interessante o innovativa, me ne rendo conto. E invece.

Daniel Hahn, infatti, fa qualcosa che nessuno, almeno così mi pare, ha mai osato fare prima: ha squarciato il velo.

Sono ragionevolmente convinta che, fatta eccezione per i traduttori, nessuno sappia cosa succede realmente in quel lasso di tempo – più o meno lungo – che va dal giorno in cui si apre per la prima volta un libro e il relativo documento di Word e quello in cui, finalmente, si allega il lavoro finito alla mail per l’editore. Succede una cosa grossa: dal nulla – o quasi – nasce un libro, o quello che diventerà un libro che, come dice Hahn, è uguale – e allo stesso tempo completamente diverso – dall’originale. Ma non succede dall’oggi al domani. E soprattutto non succede in maniera indolore, se così posso dire.

Apro una piccola parentesi. Da un po’ di tempo, mi ronzava in mente l’idea di scrivere qualcosa per provare a raccontare proprio quel processo non lineare che comincia con una prima stesura spesso raccapricciante e si conclude con una stesura definitiva – o quasi, visto che poi ci sarà anche la revisione. Solo che non ho mai trovato il coraggio di farlo. Perché, ve lo garantisco, per mostrare a qualcuno una prima stesura – ma anche una seconda e, spesso, pure una terza – ci vuole il pelo sullo stomaco.

Io, per dire, di fronte a una mia prima stesura, vorrei sempre e solo piangere, strapparmi i capelli, sbattermi la testa al muro e, sempre, mi dico: ma questa cosa immonda e orripilante diventerà mai dicente? Spoiler: sì. Tutte le volte si compie il miracolo. Miracolo che, però, è il frutto di emicranie, bruciore d’occhi, schiena ingobbita, gambe anchilosate, sporadiche crisi di nervi – e, per chi è particolarmente sfortunato, di tanto in tanto, anche sfoghi cutanei.

Apro un’altra piccola parentesi. Di fronte a quelle mie prime stesure invereconde, mi dico sempre: sicuramente fa così schifo perché io sono una capra, e di certo le prime stesure delle mie amiche e colleghe saranno belline, pulitine, non ci saranno parole e frasi evidenziate ogni due per tre, e tutta una serie di obbrobri inenarrabili. Per farvi capire, quando finisco la prima stesura, io non dico mai: devo cominciare la rilettura ma: ora devo riscriverlo in italiano.

Certo, ognuno di noi lavora in modo diverso. Sono sicura che qualcuno produce prime stesure più dignitose delle mie – o di quelle di Hahn. Ma sono anche abbastanza convinta del fatto che nessun traduttore pensi di averla sfangata quando arriva alla fine di quella fase lì. Del resto, con il tempo e con l’esperienza, ciascuno scopre qual è il metodo che funziona meglio per lui/lei. Io, per esempio, in prima stesura, mi concentro principalmente sulla voce, sul tono. Devo necessariamente stare nel flow, e se mi fermassi ogni mezza riga per fare ricerche, risolvere dubbi, sciogliere nodi, altro che flow. Ci ho provato, non ha funzionato. Amen. In seconda stesura, invece, come dicevo prima, riscrivo in italiano. Quella è la fase in cui, cerco di risolvere gran parte di quello che ho lasciato in sospeso, ma è soprattutto il momento in cui mi concentro sulla forma, sulla fluidità, sulla naturalezza. La terza stesura, che non è più una vera e propria stesura ma una rilettura, è quella in cui limo: affino il lessico (per esempio, scegliendo verbi e aggettivi più pertinenti), il ritmo, vado alla ricerca di allitterazioni e rime interne fastidiose, casso le ripetizioni e via dicendo. A quel punto, resta la quarta e ultima lettura, quella velocissima, quella del lo leggo come se stessi leggendo un libro per puro piacere. Di solito, è una fase abbastanza indolore, quella in cui sistemo le ultime cosette, prima del visto si alleghi.

Sarò sincera. Il processo è logorante. Tutte le volte mi riprometto di cercare di produrre una prima stesura migliore. Giuro che ci provo ma niente, non funziona, non funziono così. Nei momenti di sconforto, mi dico: zia, vai tranquilla, sta schifezza di prima stesura, come sempre, per miracolo – a proposito del miracolo, vedi sopra – diventerà qualcosa di decente.

Dunque, non solo conoscere bene la lingua da cui si traduce, conoscere benissimo quella verso cui si traduce, avere una spiccata sensibilità letteraria, come dicevo qui. Un buon traduttore deve essere paziente, avere i nervi saldi, il suo motto dovrebbe essere calma e gesso, insomma. C’è chi ci nasce, c’è chi (hello world!) deve imparare. Ma o quello o la neuro.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.