Ero terrorizzata all’idea di tradurre Marguerite Duras, lo confesso. Mi sembrava un’impresa impossibile, titanica, di quelle che fanno tremare le vene ai polsi. Ed ero terrorizzata per svariate ragioni, in primis perché, tra i venti e i trent’anni, credo di aver letto non tutto ma quasi quello che ha scritto. Galeotto fu un esame di Letteratura francese contemporanea all’università. In programma c’era Una diga sul Pacifico e ricordo perfettamente che, subito dopo averlo finito, ho cominciato a leggere Marguerite Duras in maniera quasi compulsiva.
Avendola letta tanto e avendola letta a lungo, sapevo benissimo quanto sarebbe stato difficile – no, non difficile, insidioso: è questo il termine esatto – tradurla. Perché la scrittura di Marguerite Duras è la scrittura di Marguerite Duras: imitata (spesso male) da tanti, eppure unica, inconfondibile. Con quell’incedere ritmatissimo, a tratti asfissiante; con quel lessico semplice, perfino elementare, a cui fa da contraltare una sintassi asciutta, ridotta all’osso e al tempo stesso elaboratissima, e che può risultare ambigua, oscura, quasi un buco nero. Con un’ulteriore aggravante, nel caso di questo breve libro: come leggiamo nella nota introduttiva, infatti, il primo e il secondo testo di Scrivere sono la trascrizione di due lunghe interviste, quindi si tratta di un parlato – un parlato con tanto di peculiarità, con tanto di tic – che si fa scritto.
Proprio per via delle caratteristiche di questa scrittura, tradurre Marguerite Duras mi ha permesso di realizzare la mia ambizione più grande, che non è quella di vantare un nome di tale portata sul curriculum (per quanto, devo ammetterlo, faccia piacere, e quasi lusinghi), ma di diventare finalmente invisibile. Di raggiungere il grado zero della traduzione.
Lo dico così spesso da risultare noiosa, quasi un disco rotto, ma ne sono profondamente convinta: i libri scritti bene sono i più semplici da tradurre. Perché solo nei libri scritti bene tutto si tiene, e solo se tutto si tiene chi traduce non deve inventarsi niente. E non dovendosi inventare niente può diventare veramente invisibile, sparire – qui, nel libro, che in qualche modo si traduce da solo.
Nei cinque testi contenuti in Scrivere c’è tutta Marguerite Duras: non solo la scrittrice che riflette sulla sua scrittura, ma anche la femminista, l’intellettuale di sinistra, l’antinazista, l’appassionata d’arte e di storia, e la dialoghista (la dialoghista con i suoi tipici lui dice, lei dice: un incubo quando ci provano gli altri, una benedizione quando lo fa lei).
Tradurli è stato insidioso, sì, certo. Mi è toccato – come sempre succede a chi traduce, ma in questo caso, forse, più del solito – muovermi all’interno dei paletti imposti dal testo, senza mai sconfinare, e trattenendomi dall’assecondare l’istinto di spiegare, di chiarire troppo.
Tradurre non è scrivere, è un’attività di gran lunga meno nobile, meno spaventosa anche. Eppure, in certi passaggi del testo che apre questa raccolta, e che a questa raccolta dà il titolo, si potrebbe sostituire tranquillamente il verbo scrivere con il verbo tradurre e il sostantivo scrittore con il sostantivo traduttore. Per esempio: «Tradurre è anche non parlare. È tacere. È urlare senza fare rumore. È riposante essere un traduttore, spesso, noi traduttori ascoltiamo molto. Non parliamo tanto perché è impossibile parlare a qualcuno di un libro che abbiamo tradotto e soprattutto di un libro che stiamo traducendo. È impossibile».

DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.