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Ci vuole orecchio

Il traduttore non è solo il fratello figlio unico di Rino Gaetano, è un po’ anche il Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore di De Gregori.

Mi spiego – o almeno ci provo, e preciso che non è un caso di excusatio non petita.

Errare è umano e chi è senza peccato (o immune dall’errore) scagli la prima pietra. Ergo: anche al traduttore più esperto, attento, talentuoso può capitare di prendere un abbaglio.

Ma, parafrasando, non è dagli abbagli che si giudica un traduttore.

La traduzione è un lungo viaggio, quasi una maratona. E il traduttore, che non è un automa, certi giorni è più ispirato, altri è stanco, perciò magari gli può capitare di leggere arm (braccio) e scrivere arma, oppure di leggere radis (ravanello) e scrivere radicchio. Forse si accorgerà di aver preso un granchio un attimo prima di consegnare. O magari se ne accorgerà il revisore. Oppure sfuggirà a tutti e il libro andrà in stampa con un erroraccio. Sarebbe meglio se non succedesse, ovvio, ma se succede non muore nessuno.

Gli errori, però, non sono tutti uguali.

Ce ne sono alcuni che non sono il frutto della distrazione e della stanchezza ma della cialtronaggine e della sciatteria.

Forse adesso dovrei aprire una parentesi e spiegare brevemente cosa intendo per cialtronaggine e sciatteria.

Dunque, per come la vedo io, cialtronaggine significa credersela tanto da non prendersi la briga di aprire un dizionario, di fare ricerche, di approfondire, trasformando dei banalissimi pezzi di carbone umidi in pesci madidi di sudore – i pesci sudano? E sciatteria vuol dire non darsi la pena di rileggersi, infarcendo il testo di calchi su calchi su calchi su calchi – l’ho già scritto, calchi? La cialtronaggine e la sciatteria ci regalano perle che sulle prime ci fanno ridere, poi ci fanno venire voglia di strapparci i capelli.

D’altro canto, gli errori, anche quelli che sono frutto della cialtronaggine e della sciatteria, sono – almeno sulla carta – facili da beccare e correggere in fase di revisione – il fatto che spesso, ahinoi, nessuno li becchi e li corregga e vadano in stampa è un’altra storia.

C’è poi un altro tipo di errore, che in realtà è qualcosa di più di un errore, e che non è così facile da correggere in fase di revisione, ed è quello che chiamo stonatura.

Una traduzione stonata è quella che non è riuscita a cogliere e a riprodurre la voce del testo originale.

Ora, per come la vedo e l’ho sempre vista io, questo è il discrimine tra una buona traduzione e una cattiva traduzione. E chi traduce narrativa deve avere orecchio. Oppure è un pianto.

Ci vuole orecchio per individuare tutta una serie di caratteristiche stilistiche: non solo il registro ma anche il flow e l’intenzione, per esempio. Così come ci vuole orecchio per azzeccare le scelte in traduzione: ci sono momenti, per esempio, in cui è necessario cassare qualcosa per non spezzare il ritmo o aggiungere qualcos’altro per arrotondare e chiudere quello che diversamente rimarrebbe sospeso e monco.

Perché va bene, tradurre sarà anche dire quasi la stessa cosa, ma è soprattutto dirla quasi nello stesso modo.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.