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Foreigness and domestication in pratica

Dal post sui crisantemi è nata una discussione interessante in separata sede.

Alla base, una domanda: decidere di adattare non significa rischiare di appiattire e azzerare del tutto i riferimenti culturali? Riposta: sì ma anche no.

Partirei da una premessa: non tutti i libri sono uguali.

In certi libri, la foreigness è la colonna portante, e in quel caso va mantenuta – e perfino difesa con le unghie e con i denti, se necessario. In altri libri, invece, ci sono elementi di foreigness buttati qua e là, in maniera del tutto casuale, e lì sì che bisogna valutare, volta per volta, come agire.

Non solo, perfino all’interno dello stesso romanzo, può essere opportuno mantenere la foreigness in un caso optare per la domestication in un altro.

Piccola parentesi: per la teoria, rimando – appunto – ai teorici; io, umile manovale abituata a sporcarsi le mani, resto nel mio, ovvero nella pratica.

Mi è venuto in mente che, l’anno scorso, mi sono trovata a dover gestire il problema della foreigness e della domestication ogni due per tre, visto che traducevo un romanzo era in gran parte costruito sul clash culturale Stati Uniti vs. Francia.

Di base, c’è questa donna, un’americana, che dopo aver vissuto per vent’anni in Francia, in un delizioso paesino provenzale, torna negli USA, nello specifico in California.

Nel libro, che peraltro è ambientato in parte in Francia e in parte a San Francisco, i due Paesi sono costantemente messi a confronto: sul piano linguistico, gastronomico, immobiliare, sanitario, legale – e via discorrendo.

Il lettore anglofono, ovviamente, percepirà quel clash culturale, tutte le volte che si imbatterà in termini, luoghi, costumi e simili amenità tipicamente francesi. Il lettore italiano, invece, rischierebbe di percepire il clash culturale due volte, non solo imbattendosi in termini, luoghi, costumi e simili amenità tipicamente francesi, ma anche imbattendosi in termini, luoghi, costumi e simili amenità tipicamente americani. E, forse, sarebbe un po’ troppo.

Quindi, di base, ho scelto di mantenere la foreigness sul fronte francese, e di optare invece per la domestication su quello americano.

In realtà, mi rendo conto solo adesso che, all’epoca, non ci ho riflettuto nemmeno più di tanto, o per lo meno, non in termini di strategia traduttiva consapevole. Del resto, quando si traduce, entra in gioco anche l’istinto.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.