Mi accingo a cominciare, dopo la sacrosanta settimana di riposo e oblio tra un libro e l’altro, la traduzione numero 18. Un altro romanzo bellissimo, che ho amato alla follia e che ho inseguito con una caparbietà al limite del patologico. E che mi hanno assegnato a distanza di un anno dal primo contatto, quando ormai non ci speravo – e quasi nemmeno ci pensavo – più.
Stavolta, oltre a essere un romanzo bellissimo – sembra che l’universo, nell’ultimo anno, abbia invertito rotta, mi manda solo cose belle, perciò che dire? grazie universo, continua così, se puoi! – è anche un romanzo che sento nelle mie corde. E, dunque, almeno sulla carta, dovrebbe filare tutto liscio. Ma c’è sempre un ma.
Come molti traduttori – non tutti, ci sono anche quelli sani di mente così come ci sono quelli che soffrono della patologia opposta – ho sempre un po’ di paura: paura, essenzialmente, di essere una cialtrona miracolata, che traduce non perché sa tradurre ma in virtù di una qualche benevola e fortunosa congiuntura astrale.
Senza voler fare la fenomena, razionalmente so che non è così. Cioè, so di saper tradurre decentemente, nel senso che non sono Nostra Signora della traduzione ma neppure una cagna maledetta. Però la mente umana è un meccanismo complesso e anche un po’ burlone.
Durante questa sacrosanta settimana di riposo e oblio, quindi, ho cercato di analizzare il mio rapporto non sempre sanissimo col mio lavoro amato e odiato. E l’ho fatto con l’ausilio di una recente invenzione di una delle mie amiche geniali, ovvero con i Tradocchi di Federica Aceto.
Non vi ammorberò con tutti i dettagli della stesa, ma sta di fatto che dopo un due di spade a simboleggiare il mio approccio teorico alla traduzione e un cavaliere di spade a simboleggiare il mio approccio pratico alla traduzione, è toccato all’obiettivo a cui tendere, ovvero al rapporto che dovrei instaurare con questo lavoro, e sapete quale carta è uscita? Ebbene sì, lei: la Morte.
E la Morte che viene a fare tabula rasa per spazzare via le spade del prima e del durante, in verità, mi sembra un ottimo obiettivo a cui tendere.
Dunque, ho deciso che proverò ad affrontare la traduzione numero 18 con uno spirito più leggero, facendomi meno paranoie se possibile, ricordandomi che sì, il testo di partenza e quello di arrivo sono due cose diverse, a tratti e per certi versi inconciliabili, ma probabilmente basterebbe togliersi quella bendaccia dagli occhi, per vedere le cose da una prospettiva diversa, per stendere quelle due spade in parallelo, sulla spiaggia, osservando anche il panorama: un cielo limpido e un mare calmo; e, se possibile, ricordandomi anche che sì, bisogna armarsi e partire per la battaglia, ma magari con meno foga, senza brandire quella spada con la smania di dimostrare – dimostrare cosa, poi? e a chi? – e cercando anche di frenare quel cavallo, che in fin dei conti, dovrei essere io a tenere le redini e a guidarlo.
Perché la traduzione non è un pranzo di gala, e va bene. Ma non è detto che debba necessariamente una via crucis.
DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.