C’è una cosa che mi ostino a fare tutte le volte che ne ho l’opportunità, pur sapendo che nella migliore delle ipotesi non ne otterrò niente di buono, e nella peggiore mi scoppierà il fegato. Questa cosa è: recuperare traduzioni in altre lingue – se e quando esistono – dei libri che sto traducendo o che mi accingo a tradurre.
Io stessa mi chiedo: Perché lo fai (disperata ragazza mia)? E mi rispondo: Per sentirmi meno sola. Ho l’impressione, anche se in linea puramente teorica, di spaccarmi la testa in compagnia di qualcun altro, di qualcuno che ci è passato prima di me, che ha affrontato gli stessi problemi, che ha superato le stesse difficoltà.
Ora, non essendo stata benedetta dalla glossolalia, e conoscendo giusto l’inglese, il francese e un po’ di spagnolo, le mie opzioni sono relativamente limitate, così come è limitato il mio ventaglio di esperienze. Ma reputo interessante condividerle, alcune di quelle esperienze.
Ho tradotto poco tempo fa un libro non proprio recentissimo di cui sono riuscita a recuperare sia la traduzione francese che quella spagnola. Era – è – un libro arguto e brillante, infarcito di ammiccamenti e doppi sensi e giochi di parole. Per questo, speravo di trovare nelle traduzioni in altre lingue non tanto delle soluzioni, ma delle suggestioni, dei lampi, degli appigli. Peccato che, sorvolando sui tanti strafalcioni veri e propri – roba da far sembrare quasi accettabili gli orbi di vetro, le bambole di paglia e i pesci sudati – ho subito notato due tendenze: la traduzione spagnola, nella maggior parte dei casi, aggirava i problemi, senza troppi sbatti – ovvero, faceva la parafrasi, provava a restituire il senso per grandi linee, tralasciando allegramente tutto il resto; la traduzione francese, invece, con un approccio per così dire “radicale”, appena sorgeva una difficoltà o un problema, lo eliminava, in senso letterale, segando.
La settimana scorsa, ho cominciato a tradurre un libro bellissimo che è già uscito in spagnolo. E potevo esimermi dal recuperare quella traduzione, pur non nutrendo grandi aspettative? Ovviamente no. In virtù delle scarse aspettative, non l’ho quasi mai aperto quel file, salvo in due o tre occasioni, poche ma sufficienti per convincermi a cestinarlo e, a onor del vero, anche a farmi passare cinque minuti davvero esilaranti.
Vi do un po’ di contesto. La protagonista, a un certo punto, sbrocca male, e spacca il telefono contro il muro. Poco dopo, vede un’amica che l’accompagna a comprarne uno nuovo. Mentre fanno la fila alla cassa, l’amica le dice: “Non capisco a cosa ti serve il telefono fisso” e la protagonista le risponde: “Non è che mi serve, è del padrone di casa, e lo sai com’è che funziona: chi rompe paga”. A quel punto, l’amica, fa: “Euripides Eumenides”. E poi apprendiamo che quell’amica ha studiato Lettere classiche e ci tiene a farlo sapere al mondo intero, anche se ormai si è dimenticata tutto quello che ha imparato all’università.
Bene. Ora, io non ho fatto il classico, ma mi viene subito il dubbio che Le Eumenidi non le abbia scritte Euripide – e infatti le ha scritte Eschilo. Allora penso che sì, ci può stare lo strafalcione, visto che l’amica fa tanto la sborona ma in realtà è una ciuccia. Però poi rifletto: se il senso fosse Le Eumenidi di Euripide ci sarebbe un genitivo sassone (Eupides’ Eumenides, anzi Euripides’ non sarebbe nemmeno in corsivo, ma in tondo), oppure ci sarebbe una virgola (Euripides, Eumenides) come a dire: Euripide, Le Eumenidi, così come si potrebbe dire: Ovidio, L’Eneide, facendo una specie di calderone.
Non volendo perderci le ore, ma ormai quasi rassegnata a chiedere numi all’autrice, in un lampo di lucidità googlo: “Euripides Eumenides” – perché non dimentichiamo che Google, se sai usarlo, ti salva non dico la vita ma le chiappe sì. E becco una barzelletta:
An ancient Greek walks into a tailor’s shop.
The tailor asks him, “Euripides?”
The man replies, “Yeah. Eumenides?”
Vedo la luce e, a quel punto, avendo capito, mi resta solo da inventarmi una soluzione che possa funzionare. Però sono curiosa di scoprire come l’hanno sfangata in spagnolo, così apro il file e vado a guardare.
Ebbene, in spagnolo hanno lasciato: “Euripides Eumenides”. Ora, immaginate di leggere un romanzo, dove due amiche stanno conversando, in italiano, e a un certo punto una dice: “Euripides Eumenides”. Come minimo, rimanete un attimo perplessi, vi domandate cos’è quella frase buttata lì a casaccio, e perché è rimasta in inglese (o in latino, se volete).
Nella traduzione italiana, probabilmente la tipa dirà: “Ma errare umanum est” perché è l’unica cosa che mi permette di salvare due elementi irrinunciabili: il riferimento agli studi classici (anche se non si tratta più di greco ma di latino) e l’aggancio, seppure un po’ lasco, all’idea per cui chi rompe paga (e i cocci sono suoi).
DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.