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Traduzioni che non sono la mia

C’è una cosa che mi ostino a fare tutte le volte che ne ho l’opportunità, pur sapendo che nella migliore delle ipotesi non ne otterrò niente di buono, e nella peggiore mi scoppierà il fegato. Questa cosa è: recuperare traduzioni in altre lingue – se e quando esistono – dei libri che sto traducendo o che mi accingo a tradurre.

Io stessa mi chiedo: Perché lo fai (disperata ragazza mia)? E mi rispondo: Per sentirmi meno sola. Ho l’impressione, anche se in linea puramente teorica, di spaccarmi la testa in compagnia di qualcun altro, di qualcuno che ci è passato prima di me, che ha affrontato gli stessi problemi, che ha superato le stesse difficoltà.

Ora, non essendo stata benedetta dalla glossolalia, e conoscendo giusto l’inglese, il francese e un po’ di spagnolo, le mie opzioni sono relativamente limitate, così come è limitato il mio ventaglio di esperienze. Ma reputo interessante condividerle, alcune di quelle esperienze.

Ho tradotto poco tempo fa un libro non proprio recentissimo di cui sono riuscita a recuperare sia la traduzione francese che quella spagnola. Era – è – un libro arguto e brillante, infarcito di ammiccamenti e doppi sensi e giochi di parole. Per questo, speravo di trovare nelle traduzioni in altre lingue non tanto delle soluzioni, ma delle suggestioni, dei lampi, degli appigli. Peccato che, sorvolando sui tanti strafalcioni veri e propri – roba da far sembrare quasi accettabili gli orbi di vetro, le bambole di paglia e i pesci sudati – ho subito notato due tendenze: la traduzione spagnola, nella maggior parte dei casi, aggirava i problemi, senza troppi sbatti – ovvero, faceva la parafrasi, provava a restituire il senso per grandi linee, tralasciando allegramente tutto il resto; la traduzione francese, invece, con un approccio per così dire “radicale”, appena sorgeva una difficoltà o un problema, lo eliminava, in senso letterale, segando.

La settimana scorsa, ho cominciato a tradurre un libro bellissimo che è già uscito in spagnolo. E potevo esimermi dal recuperare quella traduzione, pur non nutrendo grandi aspettative? Ovviamente no. In virtù delle scarse aspettative, non l’ho quasi mai aperto quel file, salvo in due o tre occasioni, poche ma sufficienti per convincermi a cestinarlo e, a onor del vero, anche a farmi passare cinque minuti davvero esilaranti.

Vi do un po’ di contesto. La protagonista, a un certo punto, sbrocca male, e spacca il telefono contro il muro. Poco dopo, vede un’amica che l’accompagna a comprarne uno nuovo. Mentre fanno la fila alla cassa, l’amica le dice: “Non capisco a cosa ti serve il telefono fisso” e la protagonista le risponde: “Non è che mi serve, è del padrone di casa, e lo sai com’è che funziona: chi rompe paga”. A quel punto, l’amica, fa: “Euripides Eumenides”. E poi apprendiamo che quell’amica ha studiato Lettere classiche e ci tiene a farlo sapere al mondo intero, anche se ormai si è dimenticata tutto quello che ha imparato all’università.

Bene. Ora, io non ho fatto il classico, ma mi viene subito il dubbio che Le Eumenidi non le abbia scritte Euripide – e infatti le ha scritte Eschilo. Allora penso che sì, ci può stare lo strafalcione, visto che l’amica fa tanto la sborona ma in realtà è una ciuccia. Però poi rifletto: se il senso fosse Le Eumenidi di Euripide ci sarebbe un genitivo sassone (Eupides’ Eumenides, anzi Euripides’ non sarebbe nemmeno in corsivo, ma in tondo), oppure ci sarebbe una virgola (Euripides, Eumenides) come a dire: Euripide, Le Eumenidi, così come si potrebbe dire: Ovidio, L’Eneide, facendo una specie di calderone.

Non volendo perderci le ore, ma ormai quasi rassegnata a chiedere numi all’autrice, in un lampo di lucidità googlo: “Euripides Eumenides” – perché non dimentichiamo che Google, se sai usarlo, ti salva non dico la vita ma le chiappe sì. E becco una barzelletta:

An ancient Greek walks into a tailor’s shop.

The tailor asks him, “Euripides?”

The man replies, “Yeah. Eumenides?”

Vedo la luce e, a quel punto, avendo capito, mi resta solo da inventarmi una soluzione che possa funzionare. Però sono curiosa di scoprire come l’hanno sfangata in spagnolo, così apro il file e vado a guardare.

Ebbene, in spagnolo hanno lasciato: “Euripides Eumenides”. Ora, immaginate di leggere un romanzo, dove due amiche stanno conversando, in italiano, e a un certo punto una dice: “Euripides Eumenides”. Come minimo, rimanete un attimo perplessi, vi domandate cos’è quella frase buttata lì a casaccio, e perché è rimasta in inglese (o in latino, se volete).

Nella traduzione italiana, probabilmente la tipa dirà: “Ma errare umanum est perché è l’unica cosa che mi permette di salvare due elementi irrinunciabili: il riferimento agli studi classici (anche se non si tratta più di greco ma di latino) e l’aggancio, seppure un po’ lasco, all’idea per cui chi rompe paga (e i cocci sono suoi).


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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La Morte

Mi accingo a cominciare, dopo la sacrosanta settimana di riposo e oblio tra un libro e l’altro, la traduzione numero 18. Un altro romanzo bellissimo, che ho amato alla follia e che ho inseguito con una caparbietà al limite del patologico. E che mi hanno assegnato a distanza di un anno dal primo contatto, quando ormai non ci speravo – e quasi nemmeno ci pensavo – più.

Stavolta, oltre a essere un romanzo bellissimo – sembra che l’universo, nell’ultimo anno, abbia invertito rotta, mi manda solo cose belle, perciò che dire? grazie universo, continua così, se puoi! – è anche un romanzo che sento nelle mie corde. E, dunque, almeno sulla carta, dovrebbe filare tutto liscio. Ma c’è sempre un ma.

Come molti traduttori – non tutti, ci sono anche quelli sani di mente così come ci sono quelli che soffrono della patologia opposta – ho sempre un po’ di paura: paura, essenzialmente, di essere una cialtrona miracolata, che traduce non perché sa tradurre ma in virtù di una qualche benevola e fortunosa congiuntura astrale.

Senza voler fare la fenomena, razionalmente so che non è così. Cioè, so di saper tradurre decentemente, nel senso che non sono Nostra Signora della traduzione ma neppure una cagna maledetta. Però la mente umana è un meccanismo complesso e anche un po’ burlone.

Durante questa sacrosanta settimana di riposo e oblio, quindi, ho cercato di analizzare il mio rapporto non sempre sanissimo col mio lavoro amato e odiato. E l’ho fatto con l’ausilio di una recente invenzione di una delle mie amiche geniali, ovvero con i Tradocchi di Federica Aceto.

Non vi ammorberò con tutti i dettagli della stesa, ma sta di fatto che dopo un due di spade a simboleggiare il mio approccio teorico alla traduzione e un cavaliere di spade a simboleggiare il mio approccio pratico alla traduzione, è toccato all’obiettivo a cui tendere, ovvero al rapporto che dovrei instaurare con questo lavoro, e sapete quale carta è uscita? Ebbene sì, lei: la Morte.

E la Morte che viene a fare tabula rasa per spazzare via le spade del prima e del durante, in verità, mi sembra un ottimo obiettivo a cui tendere.

Dunque, ho deciso che proverò ad affrontare la traduzione numero 18 con uno spirito più leggero, facendomi meno paranoie se possibile, ricordandomi che sì, il testo di partenza e quello di arrivo sono due cose diverse, a tratti e per certi versi inconciliabili, ma probabilmente basterebbe togliersi quella bendaccia dagli occhi, per vedere le cose da una prospettiva diversa, per stendere quelle due spade in parallelo, sulla spiaggia, osservando anche il panorama: un cielo limpido e un mare calmo; e, se possibile, ricordandomi anche che sì, bisogna armarsi e partire per la battaglia, ma magari con meno foga, senza brandire quella spada con la smania di dimostrare – dimostrare cosa, poi? e a chi? – e cercando anche di frenare quel cavallo, che in fin dei conti, dovrei essere io a tenere le redini e a guidarlo.

Perché la traduzione non è un pranzo di gala, e va bene. Ma non è detto che debba necessariamente una via crucis.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Professione di fede

Qualche giorno fa, pensavo che la traduzione, a volte, è una professione di fede.

Ci sono momenti in cui il traduttore non capisce, o non è sicuro di capire, o si rende conto di aver capito solo in parte. Ora, per fortuna, checché se ne dica, il traduttore non è mai del tutto solo. E quando brancola nel buio, può chiedere aiuto: ai colleghi, agli amici madrelingua, all’autore. Io, per dire, ho un’abitudine: quando comincio a tradurre un libro, di solito, scrivo all’autore. Mi presento e gli anticipo che quasi sicuramente, di lì a qualche settimana/mese, gli scriverò per sottoporgli dei dubbi. Solo che, incredibile ma vero, non sempre l’autore riesce a chiarirteli, i dubbi. O meglio: ci sono dubbi per i quali l’autore riuscirà a fornirti le risposte, e ce ne sono altri che – ahimè – ti devi smazzare da solo.

Quando capisci di essere di fronte a uno di quei dubbi infami per i quali l’autore non può offrirti soluzioni, quando anche i colleghi e gli amici madrelingua ti rispondono: Boh, non ne ho idea, ecco, è proprio lì che entra in gioco la professione di fede.

Apro una breve parentesi. Dico sempre che per tradurre narrativa occorrono tre cose: conoscere benissimo la la lingua dalla quale traduciamo, conoscere ancora meglio l’italiano, ed essere dotati di una sviluppata sensibilità letteraria. Ed è proprio lei, la sensibilità letteraria, che in molti casi ci salva le chiappette.

Prendiamo questa frase, nella quale mi sono imbattuta in uno degli ultimi libri che ho tradotto e che mi ha tolto il sonno per qualche notte:

The next funeral baked meat treat is not long in coming.

Cosa diamine è, mi sono chiesta, sbattendomi la testa al muro, quel funeral baked meat treat?

Per capirlo, o per lo meno per provare a capirlo, parto dal treat che credo abbia l’accezione di occasione festosa, pur facendo pensare anche a uno sfizio alimentare, tanto più che è preceduto da baked meat.

Assodato – più o meno – questo, mi sposto su baked meat, che leggo in opposizione a fresh meat, e che mi sembra sia più metaforico che altro, perché il banchetto che segue il funerale, di base, non contempla carne arrosto, ma la presenza di gente per così dire attempata.

E poi c’è quel next, che per me non significa imminente, e quindi non si riferisce al banchetto che segue la cerimonia, ma successivo, riferendosi perciò proprio alla cerimonia che inizierà finita quella che si sta svolgendo.

Così, di base, penso di aver capito il senso: in soldoni, significa che manca poco al prossimo funerale, alla prossima cerimonia funebre. Ma per tradurre narrativa non basta capire, in soldoni, il senso. E io non posso fingere che non ci sia quel baked meat là in mezzo.

Se quel meat mi fa pensare a un’accozzaglia di gente, baked mi rimanda al forno, così mi viene in mente la parola infornata, nel senso di immissione contemporanea di un numero notevole di persone in un’ambiente.

Forse ci sono? Qualcuno mi suggerisce anche che possa esserci un rimando alle funeral baked meats dell’Amleto di Shakespeare. E lì mi si accende una lampadina e penso all’Ulisse di Joyce: ogni mortale giorno una nuova infornata, che però in inglese è fresh batch. Sì, forse ci sono.

Tradurre narrativa significa anche accettare che bisogna spesso rinunciare a qualcosa, che bisogna decidere cosa si è disposti a perdere e cosa occorre salvare a tutti i costi, che bisogna negoziare. E in questo caso, io ho deciso di salvare il senso, che è il minimo sindacale, e di aggrapparmi a un riferimento letterario, anche se è un riferimento letterario diverso – e posso permetterlo perché qui, il riferimento letterario ha una funzione puramente “ornamentale”, è una strizzatina d’occhi, un ammiccamento – e ho tradotto così: Manca poco alla prossima infornata funebre.

Come sempre non è l’unica traduzione possibile o lecita, e come sempre è probabile che non sia la soluzione migliore. Ma tradurre è scendere a compromessi, e fare ogni tanto una professione di fede.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Ci vuole orecchio

Il traduttore non è solo il fratello figlio unico di Rino Gaetano, è un po’ anche il Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore di De Gregori.

Mi spiego – o almeno ci provo, e preciso che non è un caso di excusatio non petita.

Errare è umano e chi è senza peccato (o immune dall’errore) scagli la prima pietra. Ergo: anche al traduttore più esperto, attento, talentuoso può capitare di prendere un abbaglio.

Ma, parafrasando, non è dagli abbagli che si giudica un traduttore.

La traduzione è un lungo viaggio, quasi una maratona. E il traduttore, che non è un automa, certi giorni è più ispirato, altri è stanco, perciò magari gli può capitare di leggere arm (braccio) e scrivere arma, oppure di leggere radis (ravanello) e scrivere radicchio. Forse si accorgerà di aver preso un granchio un attimo prima di consegnare. O magari se ne accorgerà il revisore. Oppure sfuggirà a tutti e il libro andrà in stampa con un erroraccio. Sarebbe meglio se non succedesse, ovvio, ma se succede non muore nessuno.

Gli errori, però, non sono tutti uguali.

Ce ne sono alcuni che non sono il frutto della distrazione e della stanchezza ma della cialtronaggine e della sciatteria.

Forse adesso dovrei aprire una parentesi e spiegare brevemente cosa intendo per cialtronaggine e sciatteria.

Dunque, per come la vedo io, cialtronaggine significa credersela tanto da non prendersi la briga di aprire un dizionario, di fare ricerche, di approfondire, trasformando dei banalissimi pezzi di carbone umidi in pesci madidi di sudore – i pesci sudano? E sciatteria vuol dire non darsi la pena di rileggersi, infarcendo il testo di calchi su calchi su calchi su calchi – l’ho già scritto, calchi? La cialtronaggine e la sciatteria ci regalano perle che sulle prime ci fanno ridere, poi ci fanno venire voglia di strapparci i capelli.

D’altro canto, gli errori, anche quelli che sono frutto della cialtronaggine e della sciatteria, sono – almeno sulla carta – facili da beccare e correggere in fase di revisione – il fatto che spesso, ahinoi, nessuno li becchi e li corregga e vadano in stampa è un’altra storia.

C’è poi un altro tipo di errore, che in realtà è qualcosa di più di un errore, e che non è così facile da correggere in fase di revisione, ed è quello che chiamo stonatura.

Una traduzione stonata è quella che non è riuscita a cogliere e a riprodurre la voce del testo originale.

Ora, per come la vedo e l’ho sempre vista io, questo è il discrimine tra una buona traduzione e una cattiva traduzione. E chi traduce narrativa deve avere orecchio. Oppure è un pianto.

Ci vuole orecchio per individuare tutta una serie di caratteristiche stilistiche: non solo il registro ma anche il flow e l’intenzione, per esempio. Così come ci vuole orecchio per azzeccare le scelte in traduzione: ci sono momenti, per esempio, in cui è necessario cassare qualcosa per non spezzare il ritmo o aggiungere qualcos’altro per arrotondare e chiudere quello che diversamente rimarrebbe sospeso e monco.

Perché va bene, tradurre sarà anche dire quasi la stessa cosa, ma è soprattutto dirla quasi nello stesso modo.


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Loop

Ogni volta che finisco di tradurre un libro, durante l’ultimissima rilettura, quella dei tocchi finali, penso stupita: Dai, pensavo peggio. Si legge bene. Scorre, a tratti è perfino brillante. Funziona.

Di solito, dopo quel momento di stupore, mi fermo a pensare, faccio mente locale e mi dico: Cosa ci sarà mai di strano, poi? In fondo, è il tuo lavoro. Ed è vero ma ci sono diversi ma.

Il primo ma è che io nasco francesista, divento francesista prestata all’inglese, e mi trasformo – in principio, mio malgrado; oggi con una certa soddisfazione – in anglista.

Il secondo ma è che ho ricominciato a tradurre narrativa relativamente da poco, dopo una pausa lunghissima, di anni, e se è vero che tradurre è come andare in bicicletta, quando non pedali da un po’, le prime volte che torni in sella fai fatica.

Il terzo ma è che ogni libro è, per forza di cose, una storia a sé, e se con alcuni ti senti fin da subito in sintonia, con altri invece percepisci una distanza siderale, e non è facile – e nemmeno rapido, almeno per me, e men che meno indolore – trovare la quadra, sgombrare la testa dai preconcetti, da preferenze e idiosincrasie puramente soggettive, e intonarsi a quella nuova voce che non solo non è la tua – prima o poi ci riuscirò a scrivere un post intitolato Voci che non sono la mia – ma non ci si avvicina neppure lontanamente.

In questi casi, nel caso dei libri con i quali percepiamo una distanza siderale, il processo somiglia molto all’inferno o al diavolo o alla morte – sì, mi sono intrippata coi tarocchi, per colpa di un’amica.

E c’è di più, ed è un pericolo subdolo che può avere conseguenze devastanti. Se io, poniamo il caso, mi sentissi particolarmente in sintonia con un certo tipo di scrittura, diciamo lineare, scarna, quasi minimalista, e mi trovassi a tradurre un libro con uno stile agli antipodi, diciamo baroccheggiante e ammiccante al limite del lezioso, non rischierei di fiutarci più baroccheggiamenti e ammiccamenti e leziosaggini di quante non ce ne siano in realtà, calcando troppo la mano, e compiendo uno scempio? Risposta: forse sì.

Ecco, è un po’ quello che mi è successo con l’ultimo libro che ho tradotto. Ho fatto una fatica enorme, come non mi capitava da tempo, a entrarci dentro, a riconoscerne il tono e l’intenzione, a capire in quale direzione dovevo muovermi, in quale registro dovevo andare a pescare parole ed espressioni. E mi chiedevo di continuo: starà esagerando davvero qui oppure sono io che ci vedo esagerazioni dove non ce ne sono?

In quei momenti, in quelle fasi, non c’è lucidità che tenga. O almeno, io non sono abbastanza razionale e assennata da dirmi: Dai, tranquilla, che in qualche modo, pure stavolta la porti a casa. No, io entro in un loop fatto di: Sono una capra, devo andare a zappare, ma perché ho accettato, oddio penseranno che faccio schifo e non lavorerò mai più. Probabilmente perché quando distribuivano il buonsenso e l’equilibrio, io ero assente.

E, invece, come dicevo all’inizio, durante l’ultimissima rilettura, mi è parso che funzionasse, mi è parso di essere riuscita non solo a dire quasi la stessa cosa, ma dirla anche quasi allo stesso modo – che è un dettaglio non proprio trascurabile, se traduciamo narrativa.

Ovviamente questa parentesi di beatitudine è di brevissima durata, perché una volta spedito il file, comincia un altro loop deleterio e snervante, fatto di: Oddio è se invece la traduzione è disastrosa, la revisione sarà una tragedia, penseranno che sono un’incapace e non lavorerò mai più.

Per fortuna, dopo la sacrosanta settimana di riposo e oblio tra un libro e l’altro, comincio a tradurre un romanzo con il quale mi sento del tutto in sintonia – ovviamente, questo lo dico ora; appena comincerò a lavorare partirà l’ennesimo loop. Forse, la vita – la mia vita, o almeno la mia vita lavorativa – è un pendolo destinato a oscillare in eterno tra sono una capra e devo andare a zappare.


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Gli Hunger Games della revisione

Ho da poco consegnato un libro che ho amato fin dal primo momento. E l’ho amato per tante ragioni. Una su tutte: mi consentiva – anzi, mi chiedeva – di divertirmi con la lingua. E io potevo mai rifiutarmi?

Ho buttato giù un elenco – non esaustivo – di alcune delle parole e delle espressioni che non avrei mai pensato di poter usare in una traduzione. E invece.

Alcune, ne sono consapevole, verranno cassate in fase di revisione – e io stessa, in certi casi, ho proposto delle alternative un po’ più soft. Ma altre, presumo, approderanno sulla carta, alla fine degli Hunger games.

MAPPAZZONE: In un libro fatto per il 60% di cibo, potevo mai esimermi dall’omaggiare chef Barbieri? Spoiler: no.

ARANCINA COI PIEDI: Sull’annosa questione arancina vs. arancino, ho già detto la mia. Purtroppo questa espressione meravigliosa si usa solo dalle mie parti, quindi l’ho scritta esclusivamente per togliermi lo sfizio, ma con ogni probabilità diventerà pagnotta.

NUTRICARE: Se rimanesse, scommetto che molti penserebbero: toh, un refuso. Invece a me serviva un verbo che significasse nutrire ma anche allevare, accudire. Ora, non mi sono dovuta inventare niente perché quel verbo esiste ed è proprio nutricare, quindi ci ho provato. E sono pronta a difenderlo con le unghie e con i denti, se necessario – no, non è vero. se dovessero cassarmelo e propormi una soluzione convincente, non difenderei un bel niente, perché il modo migliore per massacrare i libri e fare uscire le ciofeche è fare a gara a chi ce l’ha più grosso, l’ego ovviamente.

ASCOLTA UN CRETINO: Siccome in questo libro si parla, oltre che di cibo, di tv e cinema e attorucoli e meteore, ma anche di impresari non sempre limpidi, potevo non omaggiare Micio, pur sapendo che mai e poi mai i giovani coglieranno il riferimento?

L’HO INVENTATO IO: Io, che soffro della sindrome di Pippo Baudo – però basso profilo, non dico mai che l’ho inventato semmai che l’ho scoperto io – potevo non omaggiarlo, tanto più l’originale dice letteralmente è una mia creatura e che a dirlo è un agente, riferendosi a un attore in ascesa che ha lanciato lui?

IL GATTO E LA VOLPE: Onestamente, se si parla di due impresari senza scrupoli, come si fa a trattenersi? Cioè, io mentre leggevo quel passaggio, mi canticchiavo in testa Bennato.

MAGRE MAGRE IN MODO ASSURDO: Il riferimento a Zoolander in originale mi è sembrato palese, e io non potevo perdermelo per strada. Mi sarei mangiata le mani per il resto dei miei giorni.

LIVELLA UN PAIO DI PALLE: Nell’originale si parla di death privilege, del fatto che nemmeno davanti alla morte siamo tutti uguali. E se ne parla in un numero di stand-up comedy. A me è venuta subito in mente la livella di Totò, e anche se escludo che Totò sia un riferimento culturale valido per gli americani, ci ho provato. Probabilmente non passerà. Anche perché comunque è un’aggiunta, una precisazione, una chiosa – di cui, oggettivamente, si può fare a meno.

IL CULO CHE NON FACEVA PROVINCIA MA PIANETA: Questo è uno di quei casi in cui mi sono permessa di calcare la mano, di caricare un po’. Perché di fronte a un culo grosso come un pianeta, onestamente, la tentazione di aggiungere altro colore è stata forte. Poi ehi, andrebbe benone anche l’alternativa più scialla, quella del culo grosso come un pianeta. Ma chi non risica non rosica.

SMARGINARSI: L’originale (lose the edges) non usa esattamente l’espressione di Elena Ferrante (tradotta in inglese con dissolving of margins), ma l’esperienza che descrive è proprio quella. Anche in questo caso, il riferimento è un po’ estremo, forse, infatti io stessa ho suggerito l’alternativa scontornarsi.

Che gli Hunger Games (della revisione) abbiano inizio.


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I ragazzi addormentati – NdT

Non è elegante sputare nel piatto dove si mangia, certo. E nessuna persona sana di mente si permetterebbe mai di sparare a zero – non pubblicamente, almeno – su un libro che ha tradotto. La verità, però, è che è capitato a tutti – a chi più e a chi meno – di tradurre libri che, se non dovessimo portare a casa la pagnotta, avremmo lanciato dalla finestra dopo nemmeno venti pagine. Ecco, non è questo il caso dei Ragazzi addormentati.

Devo aprire una parentesi. Ogni anno, verso la fine dell’estate, spulcio i cataloghi degli editori francesi per sapere cosa uscirà per la rentrée. Certo, col passare del tempo, ho perso un po’ di entusiasmo, lo ammetto. Ma continuo a spulciare. E l’estate scorsa, tra i millemila titoli in uscita, uno aveva catturato la mia attenzione: il romanzo d’esordio di tale Anthony Passeron, intitolato Les enfants endormis. L’ho letto, mi è piaciuto, e ho pensato che avrei tanto voluto tradurlo.

Poi, con la complicità dell’universo – che ogni tanto una gioia la regala a tutti, a chi più e a chi meno – l’ho tradotto.

La cosa magari non incredibile ma sicuramente insolita è che oltre ad essermi piaciuto quando l’ho letto la prima volta, ha continuato a piacermi mentre lo traducevo, mentre lo rivedevo, e perfino quando mi sono arrivate le bozze finali. E ve lo giuro, non capita spesso, perché il più delle volte si arriva saturi, completamente saturi, alla fine del processo.

Tra l’altro, era (ed è) un libro lontano dalle mie corde, non tanto dalle mie corde di lettrice quanto da quelle di traduttrice, perché è tutto in levare. Eppure è stato interessante e stimolante, per me, cimentarmi con una lingua misurata, distaccata, a tratti dimessa e perfino asettica – una lingua funzionale al libro, perché trattandosi di una vicenda straziante, se anche lo stile fosse stato carico di pathos, il romanzo sarebbe probabilmente risultato squilibrato.

Invece l’equilibrio è perfetto. Così com’è perfetto il ritmo impresso dall’alternarsi di due filoni narrativi: da una parte il calvario familiare, dall’altra la ricostruzione della ricerca medico-scientifica sull’Aids, con la storia privata di una famiglia come tante che si intreccia inestricabilmente con una storia ben più grande e collettiva.

Anthony Passeron

I ragazzi addomentati

Guanda

240 pp.

leggi le prime pagine


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Libri facili e libri difficili

Ieri ho finito la prima stesura del libro più difficile che ho tradotto nella mia vita.

Quando sono arrivata alla pagina dei ringraziamenti – che, per inciso, è la pagina più bella di tutte, perché è in quel momento che vedi la luce – ho pensato: tutti i libri facili si assomigliano fra loro, ogni libro difficile è difficile a modo suo.

I libri facili li riconosci subito, o quasi. Sono libri carini, scritti benino, precisini e pulitini; insomma, sono libri pieni di -ini, librini. Sono libri che, di base, traduci con il pilota automatico o, che in altre parole, si traducono da soli. E potrà sorprendervi ma: a) questi libri sono piuttosto rari; b) sono una manna dal cielo per un traduttore – perché magari si annoia per un paio di mesi, ma porta a casa la pagnotta senza sbattersi più di tanto la testa al muro.

Il libro di cui ho finito ieri la prima stesura, però, non rientra in questa categoria; è un libro difficile, così difficile che mi ha costretta a ridefinire il mio concetto di libro difficile.

Dicevo che ogni libro difficile è difficile a modo suo, e lo ripeto, lo sottoscrivo.

Sono spesso difficili i libri brutti, quelli che io chiamo, senza troppi giri di parole, monnezza. E sono difficili perché sono scritti male e editati peggio. Perciò se vuoi ottenere una roba un minimo dignitosa, leggibile, ti tocca fare i salti mortali: non puoi tradurre e basta, sei costretto a fare un lavoraccio, a tratti sporco – e, ve lo giuro, è una fatica immane.

Poi si entra nella sfera soggettiva. Per qualcuno, per esempio, possono essere difficili i libri pieni di slang, o di giochi di parole, o di interminabili descrizioni, oppure quelli che infilano una citazione ogni tre righe, o che abbondano di termini tecnici, o (qui potete aggiungere quello che vi pare). Siamo nell’ambito del gusto e delle inclinazioni personali, ovviamente. Per questo, in fondo, ogni libro difficile è difficile a modo suo e quello che è difficile per Tizio, magari, è una passeggiata di salute per Caio e viceversa.

Ora, io sono una a cui piace vincere facile. Il mio mantra è da sempre: massimo risultato con il minimo sforzo. Perciò, di base, dei libri difficili farei volentieri a meno. Di base. In teoria. Ma sono anche una che ci mette poco ad annoiarsi, e se dovessi vivere una vita col pilota automatico impazzirei. Quindi, se ogni tanto mi tocca un libro difficile, sono anche contenta. Soprattutto se, oltre che difficile, il libro è anche bello. E il libro di cui ho finito ieri la prima stesura, oltre che difficile, è anche bello – bellissimo, se posso; e divertente – non ho mai riso tanto leggendo un libro, non mi sono mai divertita tanto mentre lavoravo.

Chissà, mi chiedevo qualche giorno fa, se questo libro si trascinerà appresso l’odore del sudore, delle lacrime e del sangue che ci ho versato mentre lo traducevo. Spero di no. Anzi, spero che chi lo leggerà possa pensare che si sia tradotto da solo. Significherebbe che ho fatto un buon lavoro.


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Una questione di affinità

Una cosa che ho sempre cercato di fare, fin dagli albori – perché mi piace e perché è utile, o per lo meno lo è per me – è leggere libri affini a quello che sto traducendo.

Qualcuno dirà: Ma non ti annoi? Be’, no. Anche perché, non prendiamoci in giro, finché non consegni, dal libro non esci, non hai scampo. Parlo per me: di certo non lavoro 24 ore al giorno, ma anche quando non lavoro, in un certo senso, cervello e inconscio lavorano per me – ogni tanto, anche nel sonno, ahimè. Nel corso della giornata, capita che quella parola, quell’espressione, quel riferimento culturale passino a farmi un saluto veloce, come a dire: Oh, ti ricordi che abbiamo un conto in sospeso? E perfino nei momenti in cui credo di essere totalmente altrove, mi accorgo di essere ancora dentro al libro – mentre sono in fila alla cassa del supermercato o mentre sto guardando una serie oppure mentre sto spettegolando al telefono con un’amica, di colpo arriva una suggestione che può sollevare un dubbio o risolvere un problema.

Appurato che, come dicevo, il libro che stai traducendo non ti lascia scampo, mi dico: Fatto trenta, faccio trentuno. Ed ecco perché cerco di leggere libri affini.

Cosa intendo per libri affini? Libri che condividono temi, stile, ambientazione o anche semplicemente quello che definirei mood – un mix di atmosfere, sguardo, intenzione.

Mi piace, dicevo. E lo trovo utile, aggiungevo. Perché è una cosa che mi aiuta non solo a rimanere immersa nel libro in maniera consapevole e a non perdere il focus, ma soprattutto mi confina all’interno di un mondo – o di una galassia – che ha una sua coerenza. E la coerenza, quando si traduce narrativa, è o dovrebbe essere un faro.

Ecco perché nei prossimi mesi vorrei leggere romanzi di giovani autrici ebreo-americane, romanzi ambientati nel sottobosco dell’industria del cinema hollywoodiano, ma anche – e soprattutto – romanzi che parlano di rapporto col corpo, col cibo, col sesso e anche di mummy issues. (A tale proposito, ogni suggerimento è bene accetto.)


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Nuovo libro, nuovo metodo

Nei giorni scorsi ho blandamente cominciato a tradurre il nuovo romanzo, quello che – se tutto va bene – mi traghetterà sana e salva alla primavera – blandamente perché i tempi sono comodi e perché se rigore è quando arbitro fischia, nuovo lavoro è quando traduttore firma contratto, e io non ho ancora firmato, ma è giusto una questione di dettagli e scaramanzia.

Comunque, pure se blandamente ho cominciato, e mi sono immediatamente resa conto che negli ultimi tempi la mia metodologia di lavoro si è del tutto sbriciolata. O meglio è diventata molto più duttile e cambia, di volta in volta, adattandosi al libro – e un po’ anche alle mie necessità del momento.

Ovviamente ho già il mio schemino pronto. So quante pagine al giorno/alla settimana/al mese devo fare per non bucare la consegna, pur tenendomi un margine di sicurezza nel caso in cui dovessi pescare la temibile carta imprevisti in questo infido gioco chiamato vita. E anche a questo giro, come faccio ormai da due o tre libri a questa parte, non comincerò a rileggere dopo aver finito la prima stesura, perché è una cosa che mi manda (mandava) al manicomio. Ma farò dei continui andirivieni: traduco qualche capitolo, torno indietro e rivedo e sistemo, poi traduco qualche altro capitolo e di nuovo indietro a rivedere e sistemare. Di modo da arrivare alla fine senza rischiare di trovarmi tra le mani un blob informe e spaventoso, ma un testo da rifinire e limare. Come dicevo, è un metodo che ho già testato e che ha funzionato assai bene. Quindi, a posto.

La vera novità è un’altra, e cioè che ho deciso di leggere il libro per intero – prima. Cosa che non faccio mai, come molti colleghi, perché di base non ne sento il bisogno. Di norma, mi limito a leggere le prime 30-40 pagine, per tentare di entrare in sintonia con la voce, capire quali sono i problemi e le difficoltà e iniziare a elaborare le strategie per risolverli. In teoria avrei dovuto procedere così anche questa volta ma – udite udite! – dopo quelle 30-40 pagine non ho pensato: Madò che gran due palle, basta! bensì: Uh, mi piace, voglio andare avanti! Grazie, universo.

Sono curiosa di scoprire se questo metodo mi faciliterà il lavoro in prima stesura – pur essendo ragionevolmente convinta che, come ogni volta, sarà un massacro e uno scempio. Tanto più che, andando avanti nella lettura, mi sono ripetutamente imbattuta nei problemi e nelle difficoltà che avevo già individuato nelle prime 30-40 pagine, senza ulteriori sorprese.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.