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Una ricerca in più, una figuraccia in meno

Ieri, rileggendo per l’ennesima volta la traduzione del primo capitolo del romanzo di cui parlavo qui, ho avuto un attimo di smarrimento.

A un certo punto, c’è questa descrizione abbastanza dettagliata della copertina di un disco, dove si accenna a una gioielleria abandoned. Io, in prima battuta, avevo molto banalmente tradotto abandoned con abbandonata. Traduzione che, di base, non è sbagliata.

Peccato che sia sbagliata qui. Ma andiamo per gradi.

E, abbiate pazienza, mi tocca aprire una parentesi. Io sono una persona piuttosto pignola (ciao, ascendente vergine) e quando traduco tendo a fare una quantità di ricerche spropositata. Cosa che, va detto, alle volte mi fa solo perdere tempo ma altre mi salva dal prendere granchi clamorosi. Come nel caso del cordial che non era un cordiale ma uno sciroppo, e come in questo caso.

Dunque, la copertina in questione è quella di un disco dei Beach Boys, SMiLe – disco che peraltro ha una storia interessante, se volete approfondire c’è Wikipedia. Già la descrizione mi aveva messo una pulce nell’orecchio, ma quando ho visto coi miei occhi questa benedetta copertina, mi sono resa conto che la gioielleria era tutto meno che abbandonata.

Dunque a questo punto, c’è solo una cosa da fare, scoprire se abandoned ha altri significati. E come si scopre? Semplicemente consultando un dizionario (di preferenza monolingue).

E in due secondi netti, il Merriam Webster ci informa che, uno dei significati di abandoned è: “wholly free from restraint” – ci sta anche che a quel punto ti dai dell’idiota, perché ci potevi arrivare da sola, ma vabbè.

In un caso come questo – caso più frequente di quanto si possa pensare, tra l’altro – può succedere una cosa molto sgradevole, ovvero che il traduttore nella fretta non noti quella leggera stonatura (io, per dire, non me ne sarei accorta se avessi riletto una volta di meno) e che non la noti nemmeno il revisore. Nel 99% dei casi, vi garantisco che non la noteranno nemmeno i lettori, a meno che il libro non finisca nelle mani di un fine conoscitore dei Beach Boys che, pensando alla copertina di SMiLE, si dirà – e giustamente -: “Che peracottari il traduttore, il revisore e l’editore”.

Ecco perché, per quanto sia antieconomico – mi scusino i romantici, ma io con le traduzioni ci pago le bollette e ci faccio la spesa – io preferisco sempre fare una ricerca e un approfondimento in più. Perché è vero che tutti siamo fallibili – e io più di tanti altri – ma mi roderebbe oltremodo inciampare in un errore marchiano solo per pigrizia, pressappochismo e sciatteria. In certi casi, una ricerca in più (ci) salva la faccia.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Tradurre il linguaggio inclusivo

In questi giorni mi sto dilettando a tradurre il primo capitolo di un romanzo che alla fine nemmeno proporrò – molto poco italiano, lo definirebbe Stanis La Rochelle.

Mi sto divertendo come non mi capitava da tempo. Un po’ perché in questo romanzo c’è tutto quello che mi piace(rebbe) tradurre – è scritto alla prima persona e al presente (e io nutro un odio viscerale e in parte irrazionale per il passato remoto), è pieno di dialoghi, i personaggi parlano la lingua della strada (e per una che, come me, è cresciuta a pane e rap americano e italiano è una manna dal cielo), ci sono tantissimi riferimenti al calcio (e quindi posso mettere a frutto molte delle cose che ho imparato in oltre vent’anni di curva) e alla cultura pop in senso lato – e un po’ perché mi sta permettendo di riflettere, non in teoria ma mettendo le mani in pasta, su un problema sul quale mi pongo molte domande ormai da tempo, ovvero: come tradurre il linguaggio inclusivo.

Che la traduzione del linguaggio inclusivo potesse diventare un problema – o almeno un argomento su cui riflettere – l’ho capito qualche mese fa quando, dopo aver letto il romanzo di un’esordiente francese, sono arrivata ai ringraziamenti e lì, nei ringraziamenti – ma non nel romanzo – si usava il linguaggio inclusivo. In un caso del genere, il ragionamento è abbastanza lineare: se si usa nell’originale bisogna usarlo anche nella traduzione. Infatti i miei dubbi erano di ordine puramente pratico e, per certi versi, morfologico. Per esempio, se compagnə per compagni e compagne non mi pone alcun problema, la situazione si complica (almeno per me) con altre parole; già mi disturba professorə per professore e professoressa, ma ho un rifiuto per scrittorə per scrittore e scrittrice, per dire. E se soluzioni provvisorie, più o meno valide, vanno bene per un articolo su un blog o per un pezzo su una rivista online, quando si tratta di un romanzo, si procede in maniera un po’ più cauta – a me, per esempio, piacerebbe che la comunità dei linguisti stabilisse delle norme d’uso ragionate alle quali rivolgersi in caso si dubbi. Chiusa parentesi.

Anche il romanzo di cui sto traducendo il primo capitolo per diletto usa il linguaggio inclusivo. Non nei ringraziamenti, ma all’interno del romanzo. E lo fa in un modo che definirei moderatamente marcato, ovvero ricorrendo al pronome they per i personaggi – tanti – non binari.

Paradossalmente, l’uso del pronome they non pone grossissimi problemi perché in italiano, diversamente che in inglese, abbiamo la fortuna di poter sottintendere il soggetto. Ma quel pronome they scatena un effetto a catena o a valanga, se così posso dire.

L’italiano è una lingua flessiva, molto flessiva, e il genere non ha impatto soltanto sui pronomi ma anche sui sostantivi, sugli aggettivi e sui participi passati.

Qual è il problema concreto? Che se nel testo si ricorre al pronome they per non genderizzare (mi consentite questo brutto neologismo?) alcuni personaggi, in traduzione io devo assolutamente evitare di usare sostantivi, aggettivi e/o participi che mandino tutto all’aria.

Faccio qualche esempio.

Cal starts running towards us. When they get here, they pull a red card out of their back pocket.

In questo caso, fila tutto liscio: Cal si mette a correre verso di noi. Quando ci raggiunge, estrae un cartellino rosso dalla tasca posteriore.

Già qua le cose si complicano.

Cal and I just split, in different directions. We both know that this wasn’t a draw, and it certainly isn’t over.

Si complicano perché, per dire, non posso usare entrambi (maschile) per both, ma devo optare per un termine invariabile, per esempio ambedue o tutt’e due (giocandomi la furbata dell’apostrofo).

E ancora.

Cal is a blond.

Facile: Cal non è né biondo, né bionda né biondə; semplicemente, Cal ha i capelli biondi.

E in questo caso?

Cal is my bestie.

Di certo non Carl è lə miə migliorə amicə. Magari io e Cal siamo BFF.

La sfida, di base, è quella di usare il linguaggio inclusivo quando necessario senza ricorrere allo schwa. E non per questioni ideologiche o simili, ma perché risulterebbe una forzatura sia in termini quantitativi (in italiano ci sarebbero moltissimi più ə che they) che qualitativi (rischio altissimo di illeggibilità).


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Cordiali e cordials

Tradurre significa, tra le altre cose, non cadere nei tranelli – che sono ovunque.

Ecco quindi un esempio di tranello nel quale ho rischiato di cadere, peraltro con tutte le scarpe.

L’infame è il termine cordial.

Contesto: c’è un bambino di circa sette-otto anni che partecipa agli aperitivi danzanti organizzati dai genitori e si bea nel vedere come si divertono, mentre sorseggia un lukewarm lime cordial. Mia reazione, peraltro un po’ troppo giudicante: Irresponsabili che fate bere alcol a un bambino di quell’età. Peccato che quel cordial non corrisponda al nostro cordiale e non sia una bevanda alcolica.

Alla voce cordial, il Merriam Webster rimanda al lemma liqueur che viene definito: a usually sweetened alcoholic liquor (such as brandy) flavored with fruit, spices, nuts, herbs, or seeds. Ma il Cambridge fa una precisazione, e sempre alla voce cordial, rimanda pure lui al lemma liqueur per l’uso americano, dando invece un’altra definizione per l’uso britannico: a sweet drink made from fruit, to which water is usually added; lime cordial.

Cerchiamo quindi di capire cos’è esattamente questo lime cordial: a non-alcoholic drink, made by mixing concentrated lime juice and sugar with water. Ottimo.

Ora, siccome Wikipedia non è la bibbia, vediamo di trovare conferme. Spulcio qualche ricetta – che non contempla l’uso di alcol – e poi trovo un articolo significativamente intitolato Cordiali e cordials: quella lettera che fa la differenza.

Insomma, il bambino non rischia di sprofondare in un alcolismo precoce per colpa dei genitori irresponsabili; sta semplicemente sorseggiando uno sciroppo al lime.

Mi viene da dire solo: Grazie mamma che mi hai fatto troppo giudicante, visto che questa cosa, spesso, mi salva dal prendere granchi grossi così.


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Non tutte le pubblicità sono uguali

Proprio come prometteva la pubblicità, bastò versarne un tappo per sciogliere ogni traccia di impurità.

First reaction: bleah.

Mentre scrivevo questa frase, perfettamente consapevole di averci infilato la rimaccia pubblicità/impurità, sapevo che avrei dovuto sistemarla e riscriverla.

Quale potrebbe essere un sinonimo di pubblicità?, mi sono chiesta. Réclame, ho pensato. Sì, è un termine un po’ antiquato, oggi lo usa solo Antonella Clerici, però la scena si svolge nel 1979, perciò un tocco vintage potrebbe starci.

Che alternative ho?, mi sono chiesta. Magari potrei scrivere: Proprio come prometteva lo slogan, ma il mio originale non parla di slogan, è un banalissimo as advertised. Magari l’ipotetico slogan dice tutt’altro, e il fatto che basti versane un flacone per sciogliere – che poi sono sicura di sciogliere? non sarebbe meglio dissolvere? un problema alla volta, questo lo risolviamo in un secondo momento – ogni traccia di impurità si evince dallo spot.

E quindi? Come pubblicizzato? No, orribile. Come promesso e basta? Ma promesso da chi? E se mi buttassi su spot pubblicitario o solo su spot? Troppo televisivo, tutt’al più radiofonico, e magari questa è una pubblicità diversa, sui cartelloni o sui giornali, vai a sapere.

Davvero réclame non posso usarlo? Siamo sicuri sicuri? Mi risolverebbe un sacco di problemi réclame. No, perché io ho la ragionevole certezza che réclame mi verrebbe contestato in fase di revisione e mi troverei punto e a capo. Come ne esco?

Sembra un vicolo cieco, un enigma per solutori più che abili. Invece no, in realtà è una bazzecola. Sono io che ho sbagliato approccio, che mi sono fissata su uno dei due termini problematici e ho perso di vista il quadro generale.

Basta spostare lo sguardo ed ecco che la soluzione è lì, proprio davanti ai miei occhi.

Lascio tranquilla la pubblicità e mi concentro su impurità che può diventare, senza grossi sforzi e senza grossi danni, sporco.

Proprio come prometteva la pubblicità, bastò versarne un tappo per sciogliere ogni traccia di sporco.


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Formule ricorrenti e variazioni

Come scrivevo qui, prima di cominciare a tradurre un nuovo libro, cerco di farmi un’idea di quali saranno i problemi principali che dovrò affrontare.

Il romanzo che sto traducendo adesso e che mi farà compagnia per tutta l’estate, per mia fortuna, non sembra essere particolarmente problematico, ma ho subito capito che la mia autrice usa un elemento stilistico che mi darà non poche gatte da pelare.

Stile formulare, niente di nuovo per chi abbia letto Omero e un po’ di epica ma anche per chi abbia familiarità con le narrazioni orali.

Qua ci starebbe una bella parentesi sulla tradizione letteraria africana, sul suo debito dei confronti dell’oralità, ma anche no.

Per intenderci, la mia autrice usa delle formule – più o meno lunghe – che si ripetono nel corso di tutto il libro, a volte con qualche leggera variazione.

Qualche esempio:

the government-issued, bungalow-style house with whitewashed walls and no veranda;

a colonial-style house with French windows, a red wraparound veranda and
an English rose garden
;

the patch of grass that masqueraded as a lawn and stood where a veranda should have been.

Ora, in casi del genere, i problemi sono essenzialmente tre.

Tanto per cominciare, visto che sono formule che tornano frequentemente, non puoi permetterti di tirarle via, perché se qualcosa non torna o non funziona o non scorre, magari al lettore sfugge la prima volta, ma a un certo punto se ne accorgerà.

In secondo luogo, devi fare attenzione a ogni minima variazione. Perché se hai dieci volte the patch of grass that masqueraded as a lawn and stood where a veranda should have been e poi, di colpo, the small patch of land that constituted their front yard, ti tocca trovare il modo per richiamare la formula “regina” da un lato, ma variare volta dall’altro – proprio come succede nell’originale.

Ma la rogna più grossa è un’altra. Queste formule sono inserite in un contesto più ampio: c’è sempre qualcosa che viene prima e qualcosa che viene dopo, ed è lì che bisogna fare attenzione, molta attenzione. In sostanza, bisogna riuscire a tradurre la formula in modo che si adatti a tutti i contesti/ecosistemi linguistici in cui è inserita.

Prendiamo questo caso: where the government-issued, bungalow-style house with whitewashed walls and no veranda that he called home was situated. Se usassi casa per tradurre la formula ricorrente, che pesci piglierei quando compare home?

Insomma, sono consapevole che mi trascinerò questi problemi dalla prima all’ultima pagina e che, solo a prima stesura finita, potrò trovare delle soluzioni definitive – perché magari, nell’ultima pagina, mi capita l’ennesima variazione che mi costringe a smontare di nuovo tutto da capo.

Per non impazzire, nel frattempo, tengo traccia: ogni volta che compare una di queste formula la evidenzio sul mio documento di Word e, se è il caso, annoto in un commento a margine eventuali variazioni rispetto alla formula “regina”. E chiedo all’universo di mostrarsi clemente e non mettermi troppo i bastoni tra le ruote.


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La traduzione è una maratona

La traduzione è una maratona – non ricordo chi lo ha detto, ma chiunque sia stato ci ha preso in pieno. E chiunque abbia fatto qualche corsetta nella vita, sa perfettamente che una maratona non si improvvisa, va preparata.

Cominciare a tradurre un libro nuovo, per me, è un po’ come preparare una maratona – una mezza, dai, che io lì mi sono fermata nei miei ferventi anni da runner dilettante.

E visto che mi accingo a cominciare a tradurre un nuovo libro, ho pensato di raccontare come mi organizzo.

Prima di tutto, cerco di farmi un’idea del tempo che potrei metterci, dettaglio fondamentale per capire se i termini di consegna proposti dall’editore sono ok o se invece devo trattare per rosicchiare qualche settimana in più. Faccio dei calcoli di massima, trasformando mentalmente le pagine in cartelle, e mi chiedo: quante pagine/cartelle al mese riuscirò a tradurre? quanto ci metterò per la prima e la seconda rilettura? E poi aggiungo un margine (un mese, di solito) per far fronte a eventuali imprevisti. Se troviamo un accordo, cioè se i termini di consegna fanno contenti tutti, si parte.

A quel punto, su un apposito quadernetto (sì, sono antica, vivo in una sorta di modalità mista, un po’ digitale e un po’ analogica), preparo la tabella di marcia. E quindi mi ritrovo con una sorta di specchietto-guida, suddiviso in settimane, che mi dice da tale data a tale data devi fare tot pagine, da pagina x a pagina y, fino alla settimana più bella, quella dove c’è scritto fino alla fine. A quel punto si ricomincia, con un altro specchietto-guida, stavolta per la prima rilettura, sempre allo stesso modo: da tale data a tale data devi rileggere/riscrivere da pagina x a pagina y, ancora una volta fino alla fine. E, infine, terzo specchietto-guida, stavolta per la seconda rilettura, come sopra.

Conclusa la fase organizzativa, giunge il momento di mettere le mani in pasta, ovvero di cominciare a tradurre.

Premetto che io non leggo (quasi) mai il libro, prima di iniziare a tradurre. O meglio, non lo leggo (quasi) mai per intero. Non tanto perché non abbia il tempo o la voglia, ma perché non ne ho bisogno.

Leggere il libro prima può essere utile, può servire a entrarci dentro, a prendere le misure di una serie di cose: lo stile, in primis, ma anche i problemi/le difficoltà che bisognerà affrontare in corso d’opera. Ma, salvo casi particolari, ci si riesce anche leggendo giusto 20-30 pagine, che poi è quello che faccio io.

Lette quelle 20-30 pagine, creo il documento di Word che mi terrà compagnia nei mesi a venire. E inizio finalmente – ! – a tradurre.

Di solito passo molto, moltissimo tempo sul primo capitolo, e riscrivo, limo, mi sbatto la testa al muro finché non ottengo una versione soddisfacente, che considero quasi definitiva – ovvero quasi pronta per il visto si consegni. E lo faccio anche quando non mi chiedono una prova per decidere se assegnarmi il libro o no, perché è qualcosa che serve a me. Mi serve perché mi permette di testarmi, di capire se l’idea che mi sono fatta leggendo le prime 20-30 pagine è corretta o campata in aria, di intuire cosa andrà liscio e dove mi impantanerò – è un libro pieno di riferimenti culturali e richiederà tante ricerche? ci sono molti termini tecnici? citazioni come se piovesse? giochi di parole ogni due per tre? – e soprattutto mi consente di definire la mia strategia traduttiva – a cosa devo dare la precedenza? al ritmo, all’atmosfera, alla precisione lessicale…?

A quel punto, e solo a quel punto, comincia per me il lavoro vero. Lavoro vero che consiste nella prima – invereconda – stesura, seguita da una vera e propria riscrittura, da una rilettura attenta e da un’ultima rilettura finale, veloce.

Ovviamente, proprio come succede quando si prepara una maratona, non è sempre tutto in discesa o lineare. Per gran parte del tempo, mi ronza nella testa quella simpatica vocina che mi dice: Oddio che schifezza che stai facendo, sei una capra, non sai l’inglese, non sai l’italiano, non riuscirai mai a consegnare una roba neppure lontanamente decente, non lavorerai mai più, datti al giardinaggio. Finché, come ogni volta, si compie il miracolo.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Foreigness and domestication in pratica

Dal post sui crisantemi è nata una discussione interessante in separata sede.

Alla base, una domanda: decidere di adattare non significa rischiare di appiattire e azzerare del tutto i riferimenti culturali? Riposta: sì ma anche no.

Partirei da una premessa: non tutti i libri sono uguali.

In certi libri, la foreigness è la colonna portante, e in quel caso va mantenuta – e perfino difesa con le unghie e con i denti, se necessario. In altri libri, invece, ci sono elementi di foreigness buttati qua e là, in maniera del tutto casuale, e lì sì che bisogna valutare, volta per volta, come agire.

Non solo, perfino all’interno dello stesso romanzo, può essere opportuno mantenere la foreigness in un caso optare per la domestication in un altro.

Piccola parentesi: per la teoria, rimando – appunto – ai teorici; io, umile manovale abituata a sporcarsi le mani, resto nel mio, ovvero nella pratica.

Mi è venuto in mente che, l’anno scorso, mi sono trovata a dover gestire il problema della foreigness e della domestication ogni due per tre, visto che traducevo un romanzo era in gran parte costruito sul clash culturale Stati Uniti vs. Francia.

Di base, c’è questa donna, un’americana, che dopo aver vissuto per vent’anni in Francia, in un delizioso paesino provenzale, torna negli USA, nello specifico in California.

Nel libro, che peraltro è ambientato in parte in Francia e in parte a San Francisco, i due Paesi sono costantemente messi a confronto: sul piano linguistico, gastronomico, immobiliare, sanitario, legale – e via discorrendo.

Il lettore anglofono, ovviamente, percepirà quel clash culturale, tutte le volte che si imbatterà in termini, luoghi, costumi e simili amenità tipicamente francesi. Il lettore italiano, invece, rischierebbe di percepire il clash culturale due volte, non solo imbattendosi in termini, luoghi, costumi e simili amenità tipicamente francesi, ma anche imbattendosi in termini, luoghi, costumi e simili amenità tipicamente americani. E, forse, sarebbe un po’ troppo.

Quindi, di base, ho scelto di mantenere la foreigness sul fronte francese, e di optare invece per la domestication su quello americano.

In realtà, mi rendo conto solo adesso che, all’epoca, non ci ho riflettuto nemmeno più di tanto, o per lo meno, non in termini di strategia traduttiva consapevole. Del resto, quando si traduce, entra in gioco anche l’istinto.


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Una rosa è una rosa è una rosa, ma un crisantemo?

Mentre scrivevo il post sul tuxedo sofa, mi è tornato in mente un problema di traduzione che risale a diverse vite fa. In quel caso non si trattava di divani ma di fiori.

Nel post che ho appena citato, scrivevo – tra le altre cose – che se avessi semplicemente cambiato modello di divano, facendolo diventare, che so, un Chesterfield, la mia sarebbe stata una scelta arbitraria e immotivata. In altri casi, però, una scelta del genere potrebbe essere legittima.

Dunque, nel romanzo che stavo traducendo diverse vite fa, durante una partita di – football? baseball? boh, chi se lo ricorda più – le ragazze sugli spalti avevano dei crisantemi appuntati – sulle divise? tra i capelli? boh, chi se lo ricorda più.

Una delle poche cose che ricordo è la mia reazione di fronte a quel passaggio, di fronte a quei crisantemi, ovvero un grosso: EH??? Perché io, italiana, associo il crisantemo a morti e cimiteri. Negli USA, però, il crisantemo non ha nessuna connotazione funerea, anzi è un fiore festivo.

Cosa si fa in questi casi? Si riflette, si valutano pro e contro, e si prendono decisioni, anche a costo di toppare – perché tradurre non è solo il mestiere di riflettere, è soprattutto il mestiere di decidere.

Io, non volendo assolutamente che il lettore italiano reagisse con un grosso EH???, che è chiaramente un eufemismo – o una traduzione? – per WTF???, ho pensato che mi toccava cambiare fiore.

Breve digressione: quando traduco un romanzo, cerco sempre di tenere a mente quale potrebbe essere la reazione del lettore madrelingua e provare a suscitare – nei limiti del possibile – la stessa reazione nel lettore che legge il libro in traduzione. E qui, proprio perché negli USA, e presumo nel mondo anglofono in generale, il crisantemo non è assolutamente associato alla morte e ai cimiteri, non ci sarebbe stata nessuna reazione. Fine della digressione.

Ecco perché, in un caso come quello, cambiare fiore non mi sembra una scelta arbitraria e immotivata.

Ovviamente non ricordo più cosa sono diventati quei crisantemi – forse delle zinnie? Però so esattamente in che modo ho ragionato mentre cercavo il fiore sostituto. Mi sono mossa all’interno della stessa famiglia, dello stesso periodo di fioritura, ho guardato un sacco di foto cercando qualcosa che, anche visivamente, non fosse completamente diverso dal crisantemo.

Piccola nota: ora che ci penso, avrei potuto sfangarla in modo più rapido, trasformando i crisantemi in generici fiori.


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Quattrocento volte gli occhi al cielo

Non tutti sanno che chi traduce (soprattutto chi traduce dall’inglese) probabilmente la notte sogna gente che strabuzza gli occhi, inarca un sopracciglio, scrolla le spalle e allunga arti a caso.

A questo proposito, ho sviluppato una teoria che non ha alcuna base scientifica, ovvero: più cose del genere ci sono in un libro, più il libro è una ciofeca. E no, non è una questione di show don’t tell, è pura e semplice sciatteria. Perché è vero che, in generale, il lettore italiano si sfastidia più facilmente di quello anglofono, ma al settantaduesimo he said/she said, ve lo garantisco, anche a lui verrà voglia di lanciare il libro dalla finestra.

Di solito, il traduttore esperto e avvertito, soprattutto se è alle prese con un libro venduto – spacciato? – come literary fiction (qui, immaginate un facepalm), si sforza di far sparire buona parte di quei tic. Perché tradurre, purtroppo, certe volte ti costringe a fare anche altro: a editare, a riscrivere.

Ora, ridurre il numero di occhi al cielo, sopracciglia inarcate, spallucce e via dicendo non è chissà quale impresa. Dopo un po’, infatti, diventa quasi automatico. Il problema vero, in un romanzo dove i personaggi alzano quattrocento volte gli occhi al cielo, è un altro. Come dicevo prima, i libri così sono sciatti e i libri sciatti sono rogne.

E se vuoi – devi? – trasformare un libro sciatto in un libro quasi decente – cosa che, peraltro, certe volte ti chiede l’editore, quando te lo assegna, anticipandoti che: Come vedrai, la lingua è un po’ povera, piatta, mi raccomando, alza un po’ l’asticella, rendilo brillantesuderai le proverbiali sette camicie. Non tanto perché ti toccherà sobbarcarti un lavoro che, tecnicamente, non è nemmeno il tuo – vedi sopra alla voce: tradurre, editare, riscrivere – quanto perché, ogni volta che inciamperai in un problema, in una difficoltà, il testo non ti fornirà nessun indizio, nessuna soluzione.

Cos’è che distingue una ciofeca da un buon libro? La coerenza interna, che è prima di tutto – ma non solo – coerenza stilistica. E se c’è quella, è fatta – più o meno. In quei casi, è il testo a guidarti, a indicarti la via, a suggerirti cosa fare, quali decisioni prendere, anche quando ti sembra di brancolare nel buio.


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Un divano è un divano è un divano

In linea generale – e badiamo bene, là dove c’è una regola o anche solo un criterio generale, c’è sempre almeno un’eccezione – penso che i nomi, cioè i sostantivi – ma non quelli astratti – vadano via abbastanza lisci, senza creare chissà quali rogne. Eppure.

Attenzione, trigger warning: filosofi del linguaggio e bimbi di Wittgenstein, non continuate a leggere o potreste avere un malore.

Una sedia è una sedia, no? Dipende. Perché, per esempio, chair può sì essere una sedia, ma può anche essere una poltroncina. Una casa è una casa, giusto? Insomma. Perché se io ti dico come to my home, ti sto sì invitando a casa mia, ma casa mia potrebbe essere un appartamento, un castello o perfino una palafitta. Se invece ti dico come to my house, ti sto ancora invitando a casa mia, ma sto facendo qualcosa di più, ti sto dando anche informazioni sul tipo di posto dove abito, che non è un appartamento, né un castello e neppure una palafitta.

Questi però, il più delle volte, non sono problemi insormontabili. Nella stragrande maggioranza dei casi, come dicevo prima, vanno via abbastanza lisci, un po’ per mestiere, un po’ perché probabilmente il testo ci offre una serie di indizi che ci aiutano a imbroccare la strada giusta.

D’altro canto, non tutti i nomi sono uguali – e alcuni nomi sono meno uguali di altri.

L’altro giorno, per dire, mi sono imbattuta in un tuxedo couch. Ovviamente, non sapendo di che tipo di divano si trattava, ho fatto quello che fa qualsiasi traduttore ansioso di finire le paginette del giorno e spegnere il pc, ovvero: ho cercato sul dizionario. Naturalmente il bilingue non mi è stato di nessun aiuto, ma il monolingue ha fatto il suo sporco lavoro – o quasi.

Ecco la definizione che dà il Merriam-Wester del tuxedo sofa (o couch che dir si voglia):

an upholstered sofa with slightly curved arms that are the same height as the back

Comincio a farmi un’idea, ma è ancora troppo vaga, quindi il passo successivo è una bella ricerca per immagini – grazie Google, TVB.

E là, avviene il primo cortocircuito. Nella maggior parte delle foto di tuxedo sofa(s) che vedo, i braccioli non mi sembrano curved, nemmeno slightly curved. Penso: sii gentile, Merriam-Webster, non portarmi fuori strada. E nel frattempo mi viene in mente un altro tipo di divano che, per certi aspetti, un po’ somiglia a questo tuxedo sofa, ovvero il Chesterfield.

Sono perfettamente consapevole che si tratta di due modelli diversi, ma almeno ho qualcosa da cui partire, una chiave di ricerca per approfondire. Scopro, cosa che a questo punto non mi stupisce più di tanto, che qua e là esistono articoli dove si mettono a confronto proprio i due modelli. Dunque, il tuxedo è considerato una specie di “cugino” del Chesterfield, e la differenza più evidente tra i due sta proprio nei braccioli: arrotondati o leggermente arrotondati quelli del Chesterfield, squadrati quelli del tuxedo – capito Merriam-Webster?

C’è solo un ma, ed è questo: come cribbio si chiama in italiano questo simpatico tuxedo sofa? Chiaramente non ne ho idea. Online, trovo delle occorrenze per divano tuxedo, ma non fanno molto testo, visto che compaiono quasi esclusivamente su e-commerce di divani e simili. E sono ragionevolmente convinta che il mio lettore ideale (sì, quando traduco ho sempre in mente un lettore ideale che, a suo modo, mi guida in certe scelte), di fronte a un ipotetico divano tuxedo proverebbe un attimo di smarrimento e perplessità, che forse si fermerebbe a chiedersi cosa diamine è un divano tuxedo, perdendo di vista quello che conta davvero in quel punto del libro – spoiler: non è il modello del divano che conta.

Mi chiedo: qual è il peso specifico di questo tuxedo sofa in questo libro, in questa pagina, in questo paragrafo, in questo rigo? Mi rispondo: è un peso specifico trascurabile. Non conta sapere esattamente di che modello di divano stiamo parlando, ma capire cosa veicola quel modello di divano. E cosa veicola, qui e ora? Benessere e un certo privilegio.

E quindi? Che faccio? Ovviamente non cambio modello di divano, sarebbe una scelta arbitraria oltre che immotivata. E visto che non voglio mettere i bastoni tra le ruote al mio lettore ideale – non qui, non ora – decido che il tuxedo sofa diventerà, in italiano, un divano capitonné.

Pur essendo un termine di origine straniera, capitonné è stato da lungo tempo accolto nei dizionari italiani. E benché indichi una specifica lavorazione blablabla, in certi ambiti è diventato quasi un sinonimo di imbottito – e la prima cosa che ci dice il Merriam-Webster, e che ci hanno confermato le immagini, riguardo al tuxedo sofa è che è upholstered, ovvero imbottito. Al mio orecchio, tra l’altro, un divano capitonné, forse per la sua allure francese, evoca benessere e una punta di privilegio.

Va da sé che questa soluzione non sarebbe stata convincente in altri casi. Se, per esempio, la mia protagonista fosse un’arredatrice di interni, intenta a sciorinare modelli di divani a una cliente alle prese con un rinnovo del mobilio, non me la sarei cavata così facilmente. Stavolta mi è andata di lusso, via.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.